L’Editoriale 

Gli Stati arabi e la conferenza di Roma

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 26 luglio 2006

La Conferenza sul Libano che si è aperta oggi a Roma dovrà tener conto, oltre che delle richieste di aiuto del Governo di Beirut, del ruolo di alcuni dei Paesi arabi presenti, ed anche di alcuni degli assenti.
In primo luogo l’Egitto, già impegnato a sviluppare la mediazione del prigioniero rapito da Hamas, (mediazione interrotta dalla pesante interferenza siriana), e che aveva negli anni passati profuso con successo i suoi sforzi per giungere alla tregua nelle iniziative militari dei gruppi armati palestinesi.
Mubarak è interessato ad arginare la montata del fondamentalismo islamico, come dimostrano i risultati ottenuti dai Fratelli musulmani alle ultime elezioni legislative, ed anche i ripetuti attentati terroristici organizzati da gruppi legati a Al Qaeda contro i principali centri turistici del Paese.
L’iniziativa egiziana è affiancata con grande volontà ma con minor peso oggettivo dal Sovrano giordano, che subisce la pressione di Al Qaeda, con ripetuti tentativi terroristici rivolti anche contro di lui e la sua famiglia, ed è in prima linea rispetto al divampare della guerra civile irakena.
L’altro grande protagonista della Conferenza sarà l’Arabia Saudita, molto attiva in tutto lo sviluppo della crisi. Il Ministro degli Esteri di quel Paese, Saud Al Faisal, ha già incontrato nei giorni scorsi alla Casa Bianca il Presidente Bush, insieme al Segretario di Stato Condoleeza Rice, alla vigilia della missione che il capo della diplomazia Usa compie in questi giorni in Medio Oriente. I due diplomatici si ritroveranno a Roma oggi, per fare il punto della situazione con i loro colleghi partecipanti alla Conferenza. Alle radici dell’impegno saudita vi sono ragioni recenti e più antiche.
Riad è preoccupata per la crescita della pressione sciita guidata da Teheran, già dilagante in Iraq, e non vuole lasciare ad essa campo libero in Libano, attraverso le milizie di Hezbollah, considerate una sua emanazione diretta. La potenza saudita teme quindi l’accerchiamento, e non è troppo dispiaciuta per l’iniziativa di contenimento israeliano nel sud libanese.
La contestualità della crisi con Hamas offre d’altro canto ai sauditi maggiori margini di influenza. La formazione islamica palestinese, oltre che dagli iraniani, riceve copiosi finanziamenti anche dai sauditi, più o meno ufficiosi. La sua alleanza con Teheran non è di matrice religiosa, dato che Hamas è legata ai Fratelli musulmani ed è quindi di impronta sunnita, ma solo di convenienza, per i cospicui stanziamenti ricevuti in parziale sostituzione degli aiuti internazionali, bloccati dopo la formazione del nuovo Governo palestinese.
Sul conflitto israelo- palestinese, l’Arabia Saudita si era già misurata, promuovendo il Piano Arabo di Beirut, approvato all’unanimità dalla Lega Araba nel marzo 2002.
Quel piano, come è noto, prevedeva il riconoscimento di Israele da parte di tutti gli Stati arabi, una volta che lo Stato ebraico si fosse ritirato da tutti i territori arabi occupati nel ’67, consentisse la nascita di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est e assicurasse una soluzione “equa e concordata” al problema dei rifugiati.
Ancorché respinto da Israele per la successione temporale prevista (prima il ritiro, poi il riconoscimento), nonché per la richiesta di tornare ai confini del ’67, considerati dal Governo di Gerusalemme sostanzialmente indifendibili, il Piano saudita ha avuto indubbiamente il merito storico di spezzare il tabù del possibile riconoscimento pan-arabo dello Stato ebraico, ed è probabilmente destinato a tornare di attualità nel prossimo futuro.
E’ sintomatico che proprio nei giorni precedenti il rapimento del primo prigioniero israeliano da parte di Hamas, la formazione islamica, nella sua componente dell’interno, legata al Governo Hanieh, avesse aderito al cosiddetto “documento dei prigionieri”, che affrontava in modo molto simile, anche se non identico, la questione di una possibile pace con Israele.
Contro il possibile rilancio del negoziato bilaterale israelo-palestinese si è mosso il leader dell’esterno di Hamas, quel Meshal residente a Damasco, interessato a non farsi sfuggire il controllo della formazione islamica ad opera dei più realistici dirigenti dell’interno, costretti a confrontarsi con le quotidiane esigenze di governo.
La Siria, assente dall’incontro, è un po’ il convitato di pietra. Isolata e sotto accusa per l’assassinio del Premier libanese Hariri, ed anche per le connivenze con i diversi gruppi terroristici palestinesi ed anche qaedisti, le sue responsabilità nella apertura della doppia crisi palestinese e libanese sono evidenti.
Damasco non vuole che il negoziato israelo-palestinese riparta, escludendola dalla partita e rinviando sine die le sue pretese di recupero integrale del Golan occupato, e non vuole soprattutto che la sua storica influenza sul Libano venga del tutto misconosciuta. Perciò fa di tutto per bloccare ogni possibile evoluzione politica di Hamas, e per dimostrare che il Libano fuori dal suo controllo è ingovernabile e destinato a ripiombare nella guerra civile. I messaggi inviati agli USA in questi giorni testimoniano una disponibilità di principio a una discussione complessiva dei diversi dossier, disponibilità finora respinta dai destinatari.
E’ giusto condannare la Siria per le sue responsabilità, ma è poco saggio non tener conto delle sue esigenze oggettive. Un vecchio detto, in Medio Oriente, dice che non si può fare la guerra senza l’Egitto, ma non si può fare la pace senza la Siria.
Una soluzione positiva della questione delle fattorie di Shebaa, rivendicate dal Libano, ma non restituite da Israele che, insieme all’ONU, ne attribuisce la sovranità alla Siria, potrebbe essere un segnale interessante, magari attraverso un affidamento alla stessa forza di interposizione internazionale che si intende dispiegare.
La questione non si può porre oggi, perché diventerebbe una ricompensa all’iniziativa di Hezbollah, ma in prospettiva essa si pone, perché la stessa Israele non è interessata a mantenere il controllo su un piccolo pezzo di territorio che non rivendica, che è oggetto di un contenzioso interarabo e che è l’unico elemento che impedisce una piena normalizzazione con il Libano.
Anche Israele è assente, la sua presenza è ancora incompatibile con quella del Libano e della stessa Arabia Saudita, ma non guarda con ostilità all’incontro, da cui si attende la proposta di una forza NATO di interposizione, sotto l’egida dell’ONU. Intanto, sta facendo il lavoro sporco con Hezbollah, con la benedizione degli USA e quella taciuta di numerosi Stati arabi.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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