L’Editoriale

Ron Pundak, uomo di pace senza illusioni

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 23 aprile 2014

Nei giorni scorsi è mancato Ron Pundak, tra i principali artefici del negoziato di Oslo del ‘93. Era un uomo forte, mite, creativo e dolce, un caro amico. Da anni lottava con un male incurabile, che non gli ha impedito fino all’ultimo di impegnarsi, pur senza illusioni, per questa pace difficile.

L’ho visto l’ultima volta due anni fa, quando aveva lasciato da pochi mesi, con amarezza, la direzione del Peres Center for Peace. La sua analisi era lucida.

Il quadro della situazione che mi fece era tutt’altro che roseo: la crisi palestinese era grave, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) era disintegrata. Prevedeva che non ci sarebbe stata alcuna riconciliazione intrapalestinese. Tuttavia, la leadership palestinese temeva il rischio di incidenti, non voleva una nuova intifada e nuova violenza.

Quanto a Netanyahu, secondo Pundak il suo obiettivo non era la pace, ma il rafforzamento del controllo e della presa sull’area C (la parte della Cisgiordania sotto totale controllo israeliano), attraverso un ulteriore sviluppo delle infrastrutture e degli insediamenti in quell’area ed una legittimazione degli “outpost” non autorizzati dei coloni. In caso di negoziato, quello a cui lui poteva arrivare era lasciare ai palestinesi un 75% della Cisgiordania, inclusa quella già in loro possesso: in sostanza, un ritorno al vecchio Piano Allon, o a quello di Sharon, quando decise il ritiro da Gaza, creando la barriera difensiva che racchiude i grandi insediamenti.

Ripenso a lui in questi giorni, in cui si consuma l’ultimo tentativo diplomatico degli Stati Uniti. L’iniziativa del Segretario di Stato John Kerry, partita nove mesi fa col proposito di arrivare entro fine aprile ad una pace definitiva tra israeliani e palestinesi, si è scontrata con i rispettivi arroccamenti delle parti, e ha finito, dapprima, per retrocedere all’obiettivo, più realistico, di un “Accordo quadro”, che dettasse le linee guida della pace possibile, rinviando a ulteriore trattative la definizione dei dettagli; poi ad una proposta di “Accordo quadro” avanzato dagli Stati Uniti, cui le parti potevano aderire con riserve; infine alla richiesta pura e semplice di un prolungamento del negoziato.

Dal negoziato per una pace finale si è arrivati a un negoziato per portare avanti il negoziato: si può dire anche che nel “processo di pace” l’attenzione oggi non è rivolta alla pace, ma al processo, alla necessità di mantenere in vita il “processo”.

Le responsabilità, ovviamente, si possono ricercare nel mancato rilascio degli ultimi 25 prigionieri palestinesi da parte israeliana, che hanno infranto per primi gli accordi stabiliti all’inizio del negoziato, e nella reazione dei palestinesi, che hanno presentato richiesta di adesione a 15 trattati e organismi internazionali, incluso il Trattato di Ginevra, come era loro diritto ma come si erano impegnati a non fare.

Ma la responsabilità maggiore sta certamente nel modo ondivago, approssimativo e di breve termine con cui gli Stati Uniti hanno guidato il negoziato, malgrado l’imponente staff di circa 250 esperti che ha assistito Kerry nell’impresa.

Tipico è stato l’atteggiamento rispetto alla richiesta di Netanyahu, che i palestinesi riconoscessero Israele come Stato ebraico. Una richiesta mai rivolta prima agli altri stati arabi con cui si era trattato, l’Egitto, la Giordania o la stessa Siria. Una richiesta che mette in causa l’identità e il destino della minoranza arabo-palestinese dentro Israele, oltre che la questione irrisolta dei rifugiati del ’48 e del ’67. Kerry ha, dapprima, fatto propria la richiesta, cercando di farla accettare ai palestinesi. Quando ha capito che il rifiuto palestinese e arabo era insormontabile, almeno in questa fase preliminare, ha fatto retromarcia dicendo che la definizione di Israele come Stato ebraico era la posizione degli Stati Uniti, ma che i palestinesi non erano tenuti a farla propria.

La situazione ora pare del tutto impantanata. È probabile che, alla fine, una soluzione per il prolungamento dei negoziati si trovi: gli Stati Uniti hanno messo sul piatto la liberazione della spia israeliana Jonathan Pollard, un ebreo statunitense arrestato nel 1985 e condannato all’ergastolo.

In cambio, Israele dovrebbe rilasciare l’ultima tranche di prigionieri previsti, e qualche altro centinaio “senza sangue sulle mani”. Uno scambio che i palestinesi giudicano svantaggioso, avanzando la richiesta di una scarcerazione di Marwan Barghouti, il leader della seconda Intifada condannato a cinque ergastoli. Ma non si sa quanto il presidente Abbas persegua fino in fondo la battaglia per la liberazione di un possibile concorrente.

Non si capisce come e dove questo processo che non procede possa andare a parare. Nahum Barnea, il grande giornalista israeliano, lo ha paragonato a un aereo disperso, come quello malese, che tutti sanno che è affondato, ma si ostinano a considerarlo ancora in volo.

Una soluzione sarebbe che gli Stati Uniti presentassero davvero la propria proposta di accordo quadro, chiamando le parti a pronunciarsi. Ma questo presumerebbe la volontà di uno scontro serio con le parti, e soprattutto con Israele, il che è l’ultima cosa che Obama vuole, visti gli attuali rapporti di forza esistenti nel Congresso, e alla constatata efficacia delle diverse lobbies ebraiche, a cominciare dall’AIPAC.

L’approccio più probabile, quindi, non sarà più quello di una “conflict resolution”, ma quello di un semplice “conflict management”, considerato il minore dei mali. Un ritorno alla “benigna negligenza”, che si pensava che il Presidente Obama volesse adottare all’inizio del suo mandato.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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