L’Editoriale

Elezioni in Israele. Se Netanyahu sbaglia i conti

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 12 dicembre 2014

Un autorevole diplomatico italiano mi diceva, nei mesi scorsi: “Quando i premier israeliani non sanno più che cosa fare, indicono elezioni anticipate”. E’ ciò che deve aver pensato Netanyahu, quando ha deciso di licenziare i due ministri di centro-sinistra del suo governo, Yair Lapid e Tzipi Livni, provocando lo scioglimento della Knesset, il Parlamento israeliano.

L’isolamento internazionale del paese è ai limiti di rottura, non si contano ormai gli Stati o i parlamenti europei che si pronunciano per il riconoscimento dello Stato palestinese, mentre si torna a parlare di nuove forme di pressione da parte europea per smuovere l’ostruzionismo israeliano.

I rapporti con gli USA, poi, sono al punto più basso. Al Consiglio di Sicurezza dell’ONU stanno per essere presentate diverse proposte di risoluzione, l’una dei palestinesi, che stabilisce un termine di due anni entro cui l’occupazione israeliana deve avere fine, la seconda, presentata dalla Francia, insieme a Inghilterra e Germania, che delinea le linee guida di una possibile soluzione del conflitto.

Iniziative queste che Israele vede come il fumo negli occhi. Ma questa volta non può essere dato per scontato il veto USA, dato lo stato dei rapporti con Israele e il forte timore di contraccolpi sulla coalizione anti ISIS che gli Usa hanno messo in piedi. Non a caso, è stato annunciato un incontro straordinario a Roma tra Kerry e Netanyahu.

Se il quadro internazionale è buio, anche quello interno non è rassicurante. L’economia di Israele dopo il conflitto a Gaza ha fatto segnare un netto rallentamento, così come il turismo. A questo ha fatto riscontro l’esplodere delle tensioni tra israeliani e palestinesi, che da Gaza si sono spostate su Gerusalemme, con un susseguirsi di scontri di cui sono stati protagonisti estremisti ebrei e palestinesi, e che si sono gradualmente estesi anche agli arabi israeliani nel Nord del paese e alla Cisgiordania.
I rapporti interni alla coalizione, infine, erano divenuti sempre più precari. Netanyahu aveva scelto di bloccare i tentativi del Ministro delle Finanze, Yair Lapid, di varare una legge finanziaria “sociale” e la sua proposta di varare un provvedimento che azzerava l’IVA per le giovani coppie che dovevano comprare un primo appartamento, privilegiando invece stanziamenti a favore delle Forze Armate, ansiose di colmare le falle apertesi dopo il conflitto a Gaza.
Ugualmente, frontale era stato lo scontro con il Ministro della Giustizia, Tzipi Livni, per l’appoggio del Premier alla legge che riconosceva Israele come “Stato della Nazione ebraica” e declassava la lingua araba da seconda lingua nazionale a “lingua sussidiaria”.
Se la rincorsa a destra di del Premier israeliano era volta a fare il pieno dell’elettorato più moderato, contrastando i suoi rivali dentro e fuori il Likud, non è detto che i suoi conti siano stati giusti: mentre le prime previsioni attribuivano oltre 70 seggi (su 120) al blocco di centro-destra insieme ai religiosi (con i quali il Premier aveva avuto stretti contatti per garantirsene il futuro appoggio), successivi sondaggi indicavano come oltre il 60% degli israeliani fossero contrari ad una nuova premiership di Netanyahu, ed attribuivano ad un potenziale blocco centrista guidato dal Labour più seggi del Likud (23 contro 21).

D’altra parte, la aspirazione di Netanyahu di capeggiare un fronte unito della destra veniva vanificato dai potenziali partner, che dichiaravano di voler correre da soli: da Naftali Bennet, Ministro dell’Economia e leader di Habayit Hayehudi, cui i sondaggi attribuiscono 15 seggi, a Avigdor Lieberman, Ministro degli Esteri e leader di Yisrael Beiteinu, cui ne vengono attribuiti 11.

Ed anche i partiti religiosi si sfilavano da ogni impegno preliminare.

Inoltre, lo spostamento a destra del Likud rischia di fargli perdere voti verso il centro.

Lo ha capito Lieberman, noto per le sue posizioni di estrema destra, che ha da tempo iniziato una marcia proprio verso il centro, ammorbidendo le sue posizioni. Infine, vi è anche Moshe Kahlon, che viene dal Likud ed è stato Ministro delle Telecomunicazioni, acquistando popolarità con la liberalizzazione dei telefoni cellulari. Egli presenterà una sua nuova lista centrista, cui vengono attribuiti ben 13 seggi.

La novità di questi giorni è stata data dall’accordo tra Herzog, Leader del Partito Laburista, e Tzipi Livni, alla guida di Hatnuah. Herzog è stato generoso, pur di arrivare all’accordo, attribuendo alla Livni tre posti assicurati in lista e accettando, in caso di vittoria, una rotazione alla testa del governo dopo i primi due anni. Questo perché assicurare alla lista il primo posto può far avere il primo incarico di formare il governo.

Quanto a Yair Lapid, leader di Yesh Atid, che secondo i sondaggi vede dimezzati i suoi consensi, da 19 a 9-10 seggi, questi, dopo aver invano corteggiato la Livni, sta cercando di formare una coalizione con Lieberman e la new entry Kahlon.

All’estrema sinistra, vi è il Meretz, cui lo spostamento al centro del Labour può aprire nuovo spazio, cui vengono dati 6 seggi, e i partiti arabi che dovrebbero restare sui 10 seggi, come i partiti religiosi.

In base a questi dati, la partita elettorale israeliana non può certo dirsi chiusa, ed anche una alleanza tra i diversi gruppi di centro-sinistra e almeno qualcuno tra i partiti religiosi non può dirsi esclusa.

Naturalmente, in questi mesi può succedere di tutto, e Netanyahu può contare sul fatto di guidare il governo transitorio, con pieni poteri.

Ma mai dire mai.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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