L’Editoriale

Turchia. Una democrazia imperfetta

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 19 giugno 2013

In questi giorni, in cui siamo stati tutti incollati alla televisione, per seguire lo svolgimento degli avvenimenti a Piazza Taksim e nel contiguo Gezi Park, si sono lette e sentite molte analisi, secondo cui la Turchia sarebbe sull’orlo di una rivoluzione, o di una nuova Primavera araba.

Non è così, innanzi tutto perché come ha sottolineato il Ministro Emma Bonino, “I turchi non sono arabi e Piazza taksim non è Piazza Tahrir. Quanto sta avvenendo – ha aggiunto – mi ricorda di più Occupy Wall Street”.

Certamente, è necessario condannare la perdurante brutalità della polizia e l’uso sproporzionato della forza. Sotto esame è la maturità democratica del governo turco, la sua capacità di confrontarsi e dialogare con le diversità di opinione e con le diverse componenti della società, con un approccio aperto, pluralistico e inclusivo.

In ogni caso, per l’Italia, come ha ribadito il nostro ministro, “Ankara è un partner strategico, e il nostro governo continua a credere fermamente nella prospettiva europea della Turchia”.

Sono parole che tradiscono il timore del nostro paese che gli incidenti di questi giorni vengano utilizzati dagli oppositori storici dell’ingresso della Turchia nella Ue (a cominciare da Germania e Francia) per rimettere in discussione anche i pochi progressi che si annunciavano: a partire dalle conclusione del Consiglio Europeo del dicembre scorso, che facevano sperare in una positiva ripresa dei negoziati di adesione.

Che la Turchia sia una democrazia, lo si può affermare tranquillamente: le elezioni si svolgono liberamente, i partiti possono confrontarsi senza costrizioni, la stampa è abbastanza libera. Certamente, lo sbarramento elettorale al 10% è abnorme, e priva del diritto di rappresentanza molte formazioni politiche non certo secondarie ed anche interi settori della società, a cominciare dalla minoranza curda, che pure rappresentano il 15-20% della popolazione.

Questo malgrado il coraggioso tentativo, di cui va dato atto a Erdogan, di porre fine allo scontro con questa minoranza, aprendo una difficile trattativa che dovrebbe portare al riconoscimento di una loro larga autonomia e alla fine del conflitto armato.

Ma l’ostacolo più grave è rappresentato dalla concezione stessa che il premier Erdogan ha della democrazia. Per lui la democrazia si esprime il giorno del voto, con la scelta della maggioranza di governo. Poi il compito di governare spetta a chi vince, senza vincoli e limiti.

“Ma la democrazia non si esaurisce nei risultati delle elezioni – osserva Carlo Marsili, a lungo ambasciatore italiano ad Ankara – ma impone il rispetto della minoranza e l’ascolto delle istanze della società civile. Senza contare che se non c’è alternanza al governo, se uno vince sempre e l’altro mai, la democrazia diventa regime e il regime diventa autoritario.”

In Turchia il problema è aggravato dal fatto che una consistente parte del paese, anche se non maggioritaria, si richiama alla tradizione laica di Kemal Ataturk, e guarda con crescente sospetto al tentativo del partito di governo, l’Akp, e dello stesso Erdogan, di influenzare in senso islamico la società, imponendo il divieto di vendere alcolici vicino alle moschee, vietando lo scambio di baci in pubblico, propagandando l’invito rivolto ad ogni donna a fare almeno tre figli. Scelte politiche che mal si accordano con l’idea di un Islam laico, pluralistico e democratico, che pure Erdogan era andato a proclamare al Cairo.

La saldatura del malcontento dei settori tradizionali laici con le nuove istanze ambientaliste ed individualiste delle nuove generazioni è stato probabilmente un detonatore inaspettato, che ha colto di sorpresa lo stesso premier.

Si può affermare che il movimento di protesta è in qualche modo figlio dello stesso successo economico di Erdogan: il nuovo ceto medio, i piccoli imprenditori, i loro lavoratori, i professionisti, uomini e donne, che sono l’anima del progresso economico del paese, mal sopportano di essere irreggimentati nei rigidi schemi moralistici dell’Akp.

Quello che colpisce è che la protesta non si è limitata ad Istanbul e alle città della costa, ma è dilagata in quasi tutti i centri dell’Anatolia, le cui “tigri”, i piccoli imprenditori dell’interno, sono state il vero propulsore del miracolo turco.

Gli appelli alla moderazione del Presidente Gul hanno certo contribuito a che la protesta e la repressione non degenerassero, anche se si devono contare morti e feriti.

Erdogan, come è suo carattere, alterna aperture negoziali a prove di forza volte a restaurare la sua autorità lesionata. Ma le sue aspirazioni a trasformare la Turchia in una Repubblica presidenziale, in vista delle elezioni del prossimo anno, a cui candidarsi, hanno certamente subito un colpo, e forse anche il piano B di una possibile staffetta con Gul, (come quella tra Putin e Medvedev in Russia) appare oggi più problematica.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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