L’Editoriale

Obama stanco di guerra

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:11 settembre 2013

Mentre incontrava crescenti difficoltà nel far approvare dal Congresso la sua proposta di attacco limitato alla Siria, Obama ha tirato fuori il classico coniglio dal cappello, raccogliendo al volo la proposta di Putin di mettere sotto controllo internazionale e poi distruggere gli arsenali chimici siriani (cui si aggiunge la richiesta che la Siria aderisca alla Convenzione sulle Armi Chimiche, che ne impedisce agli aderenti la produzione e l’uso).

L’idea era stata non casualmente anticipata il giorno prima in una conferenza a Londra, dal Segretario di Stato John Kerry, che aveva dichiarato che “l’attacco Usa poteva essere evitato se il Presidente siriano Assad avesse affidato ogni singolo granello delle sue armi chimiche alla Comunità internazionale entro la prossima settimana”.

La proposta di Putin è stata dunque ripresa positivamente dal Presidente Usa, che pure ha mostrato scetticismo sulla volontà del regime siriano di metterla in atto. Obama si era trovato stretto dalla linea rossa che egli stesso aveva tracciato rispetto all’uso delle armi chimiche, e l’attacco era finito per diventare una questione di credibilità degli Usa, il che non aveva molto a che vedere con le concrete esigenze della popolazione vittima del conflitto.

Con ogni evidenza, i contatti tra le due potenze duravano da giorni, almeno dal vertice del G20 del 6 settembre, svoltosi a Mosca, quando pure in pubblico erano prevalsi i toni dello scontro.

Il piano russo è stato accettato dal ministro degli Esteri siriano, Moallem, convocato a tamburo battente a Mosca, anche se fino ad oggi sono mancate dichiarazioni ufficiali di Assad.

Germania e Turchia hanno pubblicamente apprezzato l’iniziativa, insieme a Inghilterra e Francia, che ora stanno lavorando con gli Usa alla formulazione di una risoluzione al Consiglio di Sicurezza che impegni la Siria alla distruzione controllata del suo arsenale chimico, risoluzione su cui potrebbe essere trovato un accordo anche con Russia e Cina, ora che è venuta a cadere la contrapposizione frontale, anche se certo non sarà facile arrivarvi.

Ovviamente, inizierà ora la gara per l’attribuzione dei meriti: Obama dirà che solo la sua decisione, con l’imminenza dell’attacco annunciato, ha costretto la Siria e anche la Russia a muoversi, la Russia dirà che soltanto la sua iniziativa diplomatica ha scongiurato l’esplodere di un conflitto armato dalle conseguenze imprevedibili, e ha imposto alla Siria la distruzione del proprio arsenale chimico, di cui pure aveva sempre negato l’esistenza.

Ma vi è un altro protagonista, meno evidente, in questo complesso processo diplomatico: l’Iran, che ha intrecciato una fitta rete di incontri con i siriani e i russi, per trovare una possibile via di uscita alla crisi. Teheran ha innanzi tutto reso ben chiaro ai siriani che in caso di attacco Usa non avrebbe inviato né truppe né armi.

Il suo ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, avrebbe poi dichiarato che, sfortunatamente, i governanti siriani avevano commesso gravi errori, mettendo in grave pericolo il loro paese. Si sente l’influsso del nuovo Presidente iraniano, Rowhani, che sta portando avanti una cauta apertura diplomatica anche sulla questione del nucleare.

Iran e Russia starebbero dunque lavorando all’altro volet del problema siriano, quello della soluzione politica da dare al conflitto, attraverso stretti contatti, oltre che con gli Usa, con il governo di Damasco e anche con gli elementi più moderati dei ribelli.

È evidente infatti che, anche se si arrivasse alla distruzione delle armi chimiche siriane, il conflitto non cesserebbe e Assad potrebbe continuare a massacrare la popolazione, spesso in compagnia dei gruppi di insorti più estremisti e legati a Al Qaeda. Degli oltre 100.000 morti causati dal conflitto, solo una infima parte dipende dall’uso di armi chimiche.

Si parla quindi di un anticipo delle elezioni presidenziali, attualmente previste per il 2014, alla fine del 2013, con la esclusione di una partecipazione di Assad (che in cambio otterrebbe l’immunità per sé e la sua famiglia), e la formazione di un governo composto dalle maggiori componenti del paese, sunniti, alawiti, cristiani, curdi, con l’integrazione delle forze militari e di sicurezza delle due parti nella Free Syrian Army degli insorti, onde evitare che il paese sprofondi nel caos, come è avvenuto in Libia e per certi versi in Egitto.

È una ripresa del piano dell’Inviato Speciale dell’Onu, Brahimi, e dello stesso accordo russo-americano che avrebbe dovuto portare alla convocazione della Conferenza di Ginevra II, per risolvere la crisi.

Ora che l’incomunicabilità tra le due potenze è venuta meno, forse si può cominciare a nutrire qualche speranza, anche se la crisi è lungi dal dirsi risolta.

Tutto si gioca sul filo del rasoio e nell’arco di pochi giorni, e tutto può crollare: la possibilità che l’iniziativa di pace fallisca e il ricorso all’intervento armato prevalga non è scongiurata.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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