L’Editoriale

Medio Oriente. La fatica di Kerry

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 2 luglio 2013

John Kerry, il Segretario di Stato Usa, non è riuscito neanche alla quinta missione a riportare israeliani e palestinesi al tavolo delle trattative. Durante i tre giorni della sua permanenza ha fatto la spoletta tra il premier israeliano Netanyahu e il presidente palestinese Mahmoud Abbas, incontrandoli tre volte ognuno, l’uno a Gerusalemme, l’altro ad Amman e poi a Ramallah. Si parlava della possibilità di convocare i due per una tornata di tre incontri preliminari in Giordania, per discutere come riavviare l’iniziativa diplomatica: i primi due alla presenza dello stesso Kerry e di Re Abdullah di Giordania, l’ultimo riservato solo ai due leader israeliano e palestinese. Una formula escogitata da Kerry per aggirare il rifiuto di Abbas di riprendere il negoziato prima dell’accoglimento delle sue tre condizioni sul blocco degli insediamenti, il rilascio dei prigionieri, l’accettazione dei confini del ’67 come base per il negoziato (con possibili lievi scambi territoriali). Anche se non si è arrivati agli incontri, il rappresentante USA non è parso pessimista. “Siamo partiti con dei gap molto profondi – ha affermato dall’aeroporto prima di imbarcarsi – e ora li abbiamo ridotti considerevolmente: abbiamo ancora alcuni specifici dettagli e del lavoro da ultimare, ma sono assolutamente sicuro che siamo sulla strada giusta”.

In realtà, i meeting che il Segretario USA ha avuto con i leader israeliano e palestinese sono stati approfonditi, sono durati ore, non si sono limitati a scambi formali di posizioni di principio. Si è lavorato sui dettagli, e Kerry sabato notte ha potuto presentarsi ai palestinesi con un ventaglio di proposte significative, che lo stesso granitico capo negoziatore palestinese, Saeb Erekat, ha giudicato un progresso, pur addossando agli israeliani il fallimento della mancata ripresa dei negoziati.

L’esponente statunitense ha lasciato due suoi rappresentanti, che in questi giorni porteranno avanti il lavoro con israeliani e palestinesi, cercando di appianare le difficoltà residue.

Nella sua conferenza stampa egli non ha voluto entrare nei dettagli delle nuove proposte avanzate, che prevedono l’adozione anche graduale di una serie di Confidence Building Measures da parte israeliana. La più importante è sicuramente quella del rilascio di prigionieri palestinesi, in particolare coloro che sono in prigione da prima degli accordi di Oslo del ’93. Altre ipotesi sono l’espansione del controllo civile e amministrativo dell’Autorità Nazionale Palestinese alle aree C della Cisgiordania, oggi sotto completo controllo israeliano, e il ristabilimento della libertà di passaggio al check point di Erez.

Quanto agli insediamenti, gli israeliani affermano di aver bloccato le gare d’appalto pubbliche relative dall’inizio dell’anno, anche se continua lo stillicidio di annunci di nuove costruzioni, ultimo in questi giorni quello di 930 nuove unità abitative a Har Homa, un insediamento tra Gerusalemme e Betlemme.

Kerry ha inoltre avanzato la proposta di un piano straordinario di 4 miliardi di dollari a sostegno dell’economia palestinese, e centrato su alcuni settori fondamentali quali il turismo e l’edilizia.

Un piano la cui regia sarebbe affidata a Tony Blair, inviato speciale in Medio Oriente del Quartetto (USA, Russia, UE e ONU).

Dal Canto loro, i palestinesi si impegnerebbero a non adire ulteriori organismi delle Nazioni Unite, dopo il voto del settembre scorso della Assemblea Generale che ha riconosciuto a larghissima maggioranza la Palestina come Stato Osservatore non Membro.

L’iniziativa USA ha d’altronde già prodotto alcuni risultati: dalla riconciliazione tra Israele e Turchia, avviata al termine della visita del Presidente Obama in Medio Oriente, al recente pronunciamento della Lega Araba, che ha riconfermato il Piano Arabo di Pace avanzato nel 2002, inserendovi la proposta di possibili limitati scambi territoriali. Una formulazione che offre al negoziato, ed in particolare ad Israele, riluttante ad accettare solo l’impegno del fragile interlocutore palestinese, un ombrello arabo regionale, che include il nuovo Egitto di Morsi.

La resistenza palestinese a tornare al tavolo negoziale non è peraltro dovuta solo ad una logica da suk, contrattare fino all’ultimo per ottenere di più. Il loro timore è quello di imbarcarsi nuovamente in un negoziato senza fine e inconcludente, che consenta a Israele di sottrarsi all’isolamento internazionale senza produrre risultati. Fornendo così ad Hamas nuovi argomenti per attaccare l’ANP a guida Fatah e rivendicare per sé la guida dell’OLP.

Gli israeliani, dal conto loro, temono che Abbas, sotto la pressione americana, accetti di sedersi al tavolo negoziale, per poi abbandonarlo poco dopo, come già avvenne alla fine del 2010.

Che si arrivi ad una ripresa dei negoziati, a questo punto, appare comunque probabile: troppo intenso e diretto è stato l’impegno degli Stati Uniti ai loro livelli più alti. In caso contrario, lo smacco per la potenza americana sarebbe terribile, la sua credibilità messa in discussione.

Il problema sarà quello del giorno dopo la ripresa: il gap e la sfiducia tra le due parti sono profondi e radicati, le leadership indebolite e esposte a pressioni molteplici, gli argomenti in discussione irti di difficoltà, dai confini, agli insediamenti, a Gerusalemme, ai rifugiati. Le proposte di soluzione esistono e sono abbastanza chiare, quella che è più che è incerta è la volontà e la capacità dei contendenti di farle proprie.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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