L’Editoriale

Israele-Turchia. Incontro ravvicinato

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:18 maggio 2013

Dopo il Convegno dell’ottobre 2011, sullo “Sviluppo della società”, e quello del giugno 2012, sul tema “Turchia: L’integrazione economica in Europa e nel Mediterraneo”, CIPMO, UniCredit e Promos – Camera di Commercio di Milano, in collaborazione con la Rappresentanza a Milano della Commissione Europea e il Comune di Milano, hanno promosso la conferenza: Turchia 2020. L’economia, la società, la politica estera: gli sviluppi possibili, il 15 maggio 2013, presso la Sala Conferenze di Palazzo Turati – Via Meravigli 9/b,  Milano.

Il Convegno è stato l’occasione per un dialogo della qualificata delegazione turca presente ai lavori con uno dei più sofisticati analisti israeliani, Mark Heller, Principal Research Associate all’Institute for National Security Studies (INSS) di Tel Aviv.

Al termine dei lavori, abbiamo chiesto a lui e all’Ambasciatore turco in Italia, Hakki Akil, di riprendere alcuni dei temi in discussione.

La primavera araba – osserva Akil – ha portato alla caduta di molti dei regimi totalitari al potere, sotto la pressione delle popolazioni che non erano in grado di partecipare, erano tenute fuori dalla vita pubblica, e avevano bisogno di una maggiore democrazia.

La Turchia – aggiunge l’ambasciatore – ha sostenuto questa aspirazione, anche se ora si sta attraversando un periodo di transizione, non si sa quanto lungo.

La nostra scelta – precisa – in questa fase, è di sostenere i nuovi regimi che si sono formati, per aiutarli a superare le loro difficoltà. Abbiamo dato due miliardi di dollari all’Egitto e cinquecento milioni alla Tunisia, per aiutarli. La Libia invece non ha bisogno di denaro, hanno le royalties del petrolio e del gas: con loro viene sviluppata una politica di institution building, con l’invio di esperti e di know how. Ma anche l’Europa deve essere più presente.

Chiedo a Akil se il modello turco sia stato ripreso dai nuovi regimi arabi. Io non credo – risponde – che si possa parlare di modello turco, ognuno ha la sua sensibilità e la sua storia. Ma noi siamo pronti a dare il nostro aiuto, se richiesti. Nei suoi discorsi al Cairo e a Tripoli, Erdogan di fronte ad un pubblico di migliaia di persone ha avanzato l’idea di un Islam secolare e pluralista, in cui la religione è un fatto personale, mentre lo Stato in quanto tale è secolare.

La situazione siriana – osservo – è certo al centro delle vostre preoccupazioni. In Turchia – risponde – ci sono 300.000 siriani rifugiati, di cui 120.000 nei campi profughi. Abbiamo speso 700 milioni di dollari per loro. La Comunità internazionale deve essere più presente.

Pare che la rottura tra Turchia e Israele sia in via di ricomposizione, grazie all’intervento di Obama. Ma nel medio periodo – chiedo al rappresentante turco – quali possono essere le prospettive nei vostri rapporti? Questi – è la risposta – dipenderanno dalla politica di Israele. Se continuerà nella politica del passato, con l’occupazione dei Territori palestinesi e le vittime che continuano a cadere, ciò non li aiuterà, e la loro situazione a livello regionale si farà sempre più difficile. Sono di fronte ad una scelta: o continuano con la loro politica attuale, che non è più sostenibile e aiuta i regimi totalitari ad andare avanti, o si decidono trattare, e possono così diventare un importante attore nell’area. Hanno nelle mani una opportunità d’oro, ma devono decidersi a utilizzarla.

Significative le conclusioni di Akil: d’altra parte, la Turchia è stata sempre amica di Israele e degli ebrei, da noi non c’è antisemitismo. Nel 1492, dopo la cacciata dalla Spagna, gli ebrei furono accolti e trovarono rifugio proprio nell’Impero ottomano. Salonicco era una città ebraica, dopo la caduta dell’impero gli ebrei furono costretti a andare via.

L’israeliano Marc Heller riprende con me alcuni dei principali temi in discussione.
A proposito dei rapporti tra Israele e Turchia, fa una precisazione: io credo – dice – che si debba compiere una distinzione tra la politica e interessi generali di un paese, e le scelte concrete che fanno i governi, spesso per motivi tattici e contingenti, o ideologici; ci possono quindi essere alti e bassi. Per quanto riguarda la Turchia, l’orientamento generale della leadership è relativamente stabile, e punta a mantenere buoni rapporti con la Turchia. Io sono convinto che, anche grazie a Obama, l’incidente della nave Navi Marmara potrà essere superato.

Ma si tornerà ai vecchi rapporti – gli chiedo? Certo – risponde – ci saranno dei progressi. Si può migliorare la cooperazione, che d’altronde sul piano economico non si è mai interrotta. Ma con l’attuale governo della Turchia, diretto da un partito islamico anche se moderato, sarà difficile tornare alle vecchie relazioni, di una partnership strategica privilegiata.

Vi fa ostacolo lo stesso ruolo di riferimento che la Turchia aspira a svolgere nel mondo arabo e sulla questione palestinese, che le impedisce di evidenziare rapporti troppo intimi con Israele.
Vi sono tuttavia possibilità di cooperazione e convergenze anche rispetto all’Iran e alla Siria, che costituiscono una comune preoccupazione per USA, Israele e Turchia.

Vi sono timori comuni su dove possono andare a finire le armi chimiche e i missili accumulati in Siria, dove gli Hezbollah sono insieme a Al Qaeda rappresentano oggi l’unica presenza militare straniera.

Significativamente, anche Heller – come Akil – riguardo alla Turchia conclude con un riferimento al 1492, quando i Turchi furono i soli, ad accogliere gli ebrei cacciati dalla Spagna. La storia aiuta a medicare le ferite.

Per quanto concerne gli sforzi USA per riavviare il processo diplomatico con i palestinesi chiedo – che prospettive ci sono? Per Heller, Obama vuol fare qualcosa di positivo. Tuttavia ha scelto di tener basse le aspettative. Ora capisce di più rispetto al suo primo mandato, e per lui non è terribile se non riesce a risolvere la crisi israelo-palestinese, tanti presidenti USA prima di lui non ce l’hanno fatta. Sarebbe molto peggio se fosse lui il presidente che consente all’Iran di diventare nucleare. L’opinione dell’analista israeliano è che nel tentativo diplomatico in corso tra Israele e Palestina prevalga l’attenzione sul processo diplomatico da rivitalizzare, più della fiducia sui suoi esiti: d’altronde, è meglio avere un processo diplomatico in piedi piuttosto che non avere alcun processo, il vuoto è pericoloso.

La leadership dell’ANP – aggiunge – ha bisogno di ottenere qualche risultato, se non ci riesce sarà Hamas a prevalere. Si tratta di aiutare Abbas a scendere dall’albero su cui l’ha fatto salire Obama, con la pregiudiziale sul blocco degli insediamenti avanzata nel suo primo mandato. I palestinesi non l’avevano richiesta, ma non potevano rifiutarla e ora per loro è difficile rinunciarci. Ma la priorità deve andare sui contenuti del negoziato finale, a partire dai confini: la questione degli insediamenti si risolverà di conseguenza.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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