L’Editoriale

Vecchio e nuovo Egitto

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:1 giugno 2012

L’esito delle elezioni presidenziali egiziane di questi giorni conferma la complessità dell’attuale quadro mediorientale, con la affermazione non certo schiacciante del candidato islamico ufficiale, del Freedom and Justice Party, Mohamed Morsi, con il 24,78%, seguito a ruota da quello delle Forze armate, Ahmed Shafiq, ultimo Premier sotto Mubarak, con il 23,66% (in totale, i due arrivano al 48,44%). Le forze a vario titolo riconducibili a posizioni laiche e di “sinistra” o di “democrazia islamica”, come il nasseriano Hamdeen Sabahi (20,72%), l’islamico “pluralista” Abdel Moneim Aboul Fotouh (17,47%) e Amr Moussa (11,13%), già Segretario Generale della Lega Araba, sono giunte complessivamente a un risultato lievemente superiore, sfiorando la maggioranza con il 49,32%, ma hanno avuto appunto il torto di presentarsi divise, lasciando il campo per il ballottaggio ai due poli che si contendono il potere, l’esercito e la Fratellanza Musulmana.

Le forze legate a vario titolo alla Primavera araba rappresentano quindi una forza reale (persino oltre le aspettative e le previsioni), in grado di incidere e condizionare le scelte del paese, ma non giungono a esprimere una compiuta egemonia capace di governare. Le forze più conservatrici, siano esse legate all’esercito o alle diverse formazioni islamiche dei Fratelli Musulmani o dei salafiti, riescono così a conquistare i primi due piazzamenti, qualificandosi per il secondo turno, ma non a spazzar via gli uomini e le donne di Piazza Tahir. Questi fanno leva sul l’odio per il passato, con la sua oppressione totalitaria e incontrollabile. Gli altri sulla stanchezza derivante dalla instabilità, dall’insicurezza, dalla crisi economica e dalla disoccupazione. In questa situazione di stallo, è naturale che le due forze più radicate, i Fratelli musulmani, diffusi in tutto il paese, anche nelle zone rurali , e l’esercito con la sua presa radicata sulla società (controlla oltre il 30% dell’economia) finiscano per prendere il sopravvento. Ma anche le forze più progressiste possono guardare al domani, prepararsi a affrontare questa fase di transizione che vedrà i governanti di oggi alla prova dei fatti, una prova difficile in un contesto così lacerato. I Fratelli musulmani, d’altronde, hanno un risultato inferiore alle aspettative, restando lontani dai risultati conquistati con le legislative, pagando la spaccatura con Fotouh, schieratosi su posizioni meno chiuse e integraliste.

Chi pensava che la fuoriuscita dai regimi statalistici e totalitari esistenti potesse essere un processo facile e lineare si sbagliava di grosso: quella in atto è una dinamica complessa e contraddittoria, in cui le forze legate al vecchio regime giocano le carte a disposizione per non perdere tutto, ammoniti anche dalla condanna all’ergastolo di Mubarak, e le nuove formazioni islamiche cercano di conquistare una nuova egemonia sul terreno. Ma anche le forze del rinnovamento, pur tra errori e ingenuità anche grossolane, restano in campo e riescono ancora a incidere, a influenzare la dinamica degli avvenimenti.
Questo microcosmo egiziano è in larga misura emblematico dello scontro in atto in tutta l’area: anche in Tunisia non può certo dirsi esaurita la lotta tra il nuovo e i vecchi poteri, e persino in Turchia il confronto tra partito islamico al governo, esercito e tradizioni kemaliste non può dirsi del tutto risolta.

Ma vi è un altro aspetto, più generale: l’espansione dell’influenza dei Partiti islamici a direzione sunnita, dall’Egitto, alla Tunisia, al Marocco, alla Turchia, alla stessa Giordania, per non parlare dei paesi del Golfo, tende naturalmente a scontrarsi con quello che viene chiamato l’espansionismo sciita, guidato dall’Iran.

La Siria, insieme al Libano, è forse il terreno su cui si gioca questo scontro, il cui esito è tutt’altro che certo. Ma quello che si può già affermare è che la pressione sciita, che pareva in qualche momento dilagante ha trovato un argine duro e determinato, cui guardano con crescente interesse gli stessi Stati Uniti.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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