L’Editoriale

Quanti stati palestinesi – 1° Reportage

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 31 luglio 2012 

Torno da Gerusalemme, e ho incontrato alcuni vecchi amici israeliani e palestinesi, che hanno una cosa in comune: una testa aperta e una visione lucida e critica della realtà. Tra questi, Khalil Shikaki, Direttore del PCPSR – Palestinian Centre for Policy and Survey Research di Ramallah, il prestigioso Centro che effettua sondaggi sull’opinione pubblica palestinese, e Ghassan El Khatib, Ministro per l’informazione dell’ANP e condirettore insieme all’israeliano Yossi Alpher del prestigioso settimanale informatico Bitterlemons, che purtroppo rischia una prossima chiusura. Queste alcune delle valutazioni che ne ho tratto.

La situazione che mi viene descritta non è certo rosea: il processo di pace è del tutto bloccato, almeno fino alle elezioni presidenziali USA, ed anche se rieletto è dubbio che Obama voglia reimpegnarsi nella soluzione del conflitto israelo-palestinese a rischio di un nuovo fallimento, le priorità saranno probabilmente altre. Quanto a Netanyahu, non fa neanche più finta di voler negoziare, e continua a sviluppare gli insediamenti. Ma è sulla situazione interna palestinese che si concentra l’analisi.

Le possibilità che si arrivi a realizzare la ricomposizione interpalestinese tra Fatah e Hamas sono pressoché inesistenti: a parole, i leader delle due formazioni, Abbas e Meshall, dicono di volerla, ed ogni volta che la pressione delle rispettive opinioni pubbliche si fa troppo forte fanno un incontro al Cairo, ed emettono un comunicato congiunto in cui si afferma che in pochi mesi il problema sarà risolto. Ma tutto resta sulla carta. La sfiducia tra le due leadership è tremenda. In realtà, nessuna delle due parti vuole la riconciliazione.

Contro di essa giocano anche fattori internazionali: Iran e Siria frenano Hamas, mentre Israele e USA frenano Abbas e l’ANP. Quanto all’Egitto del nuovo Presidente Morsi dei Fratelli Musulmani, questi probabilmente preferirebbe i cugini di Hamas, ma deve fare i conti con i militari, che temono il contagio da Gaza, e quindi deve assumere un atteggiamento equilibrato, espresso anche dalla scelta di ricevere al Cairo Abbas una settimana prima di Meshall, rispettando il protocollo.

Ma sono altri gli ostacoli più gravi alla riunificazione.

Hamas è preoccupato delle reazioni USA e israeliane, se nelle elezioni la vittoria andasse nuovamente a loro. Ma soprattutto la formazione islamica non vuole rinunciare al controllo della Striscia, in particolare Mahmoud Zahar, il numero due di Hamas; e con lui è schierato il  Premier locale Hanieh, che rischia di perdere il posto, con tutto il suo apparato.

Meshall, che una volta era quello su posizioni più dure, il leader che anche ultime elezioni interne è riuscito a mantenere il controllo della formazione, ha invece avuto un cambiamento serio: vuole la ricomposizione, e anche sulla piattaforma politica pare disposto a un compromesso con Al Fatah. Ma la divisione tra le sue posizioni e gli esponenti di Gaza è profonda, e dentro Hamas si procede per consenso, non a maggioranza.

D’altra parte, la leadership di Fatah non crede che Hamas, anche se perdesse le elezioni, sarebbe disposto a riconsegnare Gaza, e molti fra loro preferiscono continuare a fare a meno della Striscia. Abbas, il Presidente dell’Autorità Palestinese, è anche lui preoccupato per le reazioni degli USA e di Israele, se la riunificazione divenisse realtà, e teme che questo potrebbe danneggiare la riproposizione della richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese all’ONU, a settembre: anche se le possibilità di un rinvio della proposta a dopo le elezioni USA sono alte, date le fortissime pressioni statunitensi e europee.

Egli teme altresì che in caso di accordo con Hamas sia gli USA che Israele possano bloccare, come è già successo in passato, l’arrivo dei fondi alla ANP: questa ha bisogno di 150 milioni di dollari al mese (inclusi i fondi derivanti dai dazi doganali palestinesi che sono riversati da Israele), e i finanziamenti stanno scarseggiando, a causa della crisi mondiale.

Occorre capire che a Gaza ci sono 70.000 funzionari dell’ANP (di cui 30.000 impiegati nella sicurezza), che sono pagati e restano a casa. Questo è un peso finanziario enorme per l’ANP. Inoltre, gli impiegati pubblici, anche durante il Governo Fayyad, sono cresciuti da 130.000 a 200.000.

Lo stesso Fayyad è molto indebolito, ed il recente rimpasto di governo, pur confermandolo Premier, ha visto la nomina di un altro al Ministero delle Finanze, l’indipendente Nabil Khassis.

Il Piano Fayyad, per costruire lo Stato palestinese dal basso in due anni, non ha portato all’indipendenza; la sua capacità di attrarre finanziamenti internazionali è crollata; e soprattutto lo ha danneggiato essersi opposto pubblicamente all’idea di rivolgersi all’ONU per ottenere il riconoscimento dello Stato palestinese, il che ha finito per presentare i palestinesi divisi e ha indebolito la stessa proposta. Gli uomini di Fatah avevano mal digerito l’estromissione dai posti chiave di governo, affidati a tecnici, ma hanno ritenuto intollerabile la sua posizione sulla battaglia all’ONU, che è stata considerata peggio di una defezione.

Al Fatah d’altronde è in una condizione di debolezza. La questione della successione a Abbas è aperta e non risolta. Si parla molto di una possibile candidatura di Marwan Barghouti, il leader della seconda intifada detenuto nelle carceri israeliane, condannato a numerosi ergastoli: i sondaggi di Shikaki lo danno vincente sia se si candidasse da solo contro Hanieh, sia se corresse a tre, contro Hanieh e Abbas (che risulterebbe terzo). Se fosse eletto, argomenta lo stesso Shikaki, probabilmente gli israeliani sarebbero costretti a rilasciarlo. Ma secondo Ghassan El-Khatib, si tratta di un sostegno prevalentemente emozionale, i veri successori sono probabilmente altri. Si fa il nome di Nasser al-Kidwa, il nipote di Arafat già Osservatore Permanente all’ONU e poi Ministro degli Esteri palestinese.

Lo stallo quindi trionfa. Persino le elezioni municipali sono rinviate continuamente, per il timore di presentarsi divisi (ora sono state annunciate per il prossimo ottobre). La realtà è che la leadership dell’ANP non sa cosa dire all’opinione pubblica: il riconoscimento all’Onu è bloccato; la riconciliazione non c’è; l’economia è in crisi.

Così, si consolida lo status quo, che tende a divenire permanente. Gaza è destinata a restare una entità statuale di fatto, e nella soluzione a due Stati che si dice di voler perseguire uno, informale, potrebbe risultare Gaza; l’altro la parte restante della vecchia Palestina, Israele più la Cisgiordania. La stabilizzazione di Gaza come entità separata, d’altro canto, attenua il problema demografico dei sostenitori di una Grande Israele, perché taglia via il milione e seicentomila palestinesi della Striscia, rendendo meno impellente per loro il rischio che la popolazione ebraica possa divenire minoranza.

Secondo Shikaki, che ha recentemente pubblicato un importante saggio in proposito, si tratta di un processo in atto, della creazione sempre più irreversibile in via di fatto di uno Stato unico comprendente Israele e la Cisgiordania, con la popolazione palestinese costretta a vivere in aree residuali, senza diritti, assistendo alla progressiva espansione degli insediamenti soprattutto nelle aree c, quelle sottoposte al totale controllo israeliano. Un processo deprecabile, ma con cui la leadership palestinese si dovrà trovare a fare i conti.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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