L’Editoriale

Shalit sarà libero ma Hamas oscura Abu Mazen

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:13 ottobre 2011

L’accordo raggiunto tra Israele e Hamas, per la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit segna la fine di un incubo durato cinque anni e restituisce il giovane militare alla sua famiglia che ha testardamente lottato per riaverlo, creando un grande movimento di opinione pubblica. È da 26 anni che un prigioniero israeliano non ritornava vivo, e si può immaginare la commozione dei suoi parenti e del paese.

In cambio saranno liberati 1027 prigionieri palestinesi, di cui quasi la metà, circa 450, responsabili di gravi crimini di sangue ed indicati da Hamas, gli altri scelti dagli israeliani. Tra di loro, 203 saranno espulsi restando fuori anche da Gaza, una condizione che l’organizzazione islamica si era a lungo rifiutata di accettare.

Il rilascio dei prigionieri avverrà in due tranches: la prima, sempre di 450, nelle prossime settimane, in parte quando Shalit sarà consegnato al Governo del Cairo e in parte quando farà rientro a casa; gli altri 550 qualche tempo dopo, come gesto di gratitudine verso l’Egitto per la sua mediazione.
Si è trattato di un accordo difficile per entrambe le parti, che hanno dovuto dimostrare flessibilità e accettare nuovi compromessi.

Netanyahu ha dovuto accettare la liberazione di terroristi responsabili di attentati anche atroci, che hanno profondamente segnato il paese. Ancora una volta ha prevalso la scelta, caratteristica di Israele, che antepone ad ogni altra esigenza di dignità istituzionale e di sicurezza, la vita (ed anche il recupero del corpo) di ognuno dei suoi soldati, nel caso siano fatti prigionieri.
Il leader israeliano ha dimostrato di saper scegliere, assumendosi le sue gravose responsabilità, anche a costo di contraddire i suoi principi e probabilmente ai suoi convincimenti più profondi. E questo gli ha consentito di riportare a casa il soldato perduto, con il forte sostegno delle forze armate e dei servizi segreti del suo paese.

La sua popolarità, ritornata già a livelli assai elevati dopo l’intervento all’Assemblea Generale dell’ONU, è destinata in questi giorni a raggiungere nuovi massimi. È possibile tuttavia che, se qualcuno dei rilasciati, come è già più volte capitato, si farà coinvolgere in nuove e gravi attività terroristiche, utilizzando anche le nuove conoscenze e connessioni maturate in carcere, Netanyahu possa pagarne il prezzo.

Quanto a Hamas, ha dovuto accettare condizioni inferiori alle richieste iniziali, in particolare per quanto riguarda l’espulsione all’estero di circa 200 attivisti. Hanno pesato, in questo, le crescenti difficoltà incontrate in Siria, dove il rapporto privilegiato con il Presidente Assad è stato incrinato dalla rivolta, in atto nel paese: una rivolta espressione della maggioranza sunnita, spesso guidata proprio dai Fratelli Musulmani, di cui lo stesso Hamas costituisce una costola. L’altro elemento determinante è stata la pressione dei servizi di sicurezza e dello stesso Governo provvisorio egiziani, che hanno gettato tutto il loro peso per concludere il negoziato. L’Egitto potrebbe divenire domani il nuovo rifugio per il quartier generale di Hamas, se la situazione in Siria dovesse deteriorarsi ancora, ed il suo parere non può certamente essere ignorato dai leader dell’organizzazione islamica. Questo anche in vista del probabile successo della Fratellanza Musulmana alle elezioni politiche previste in Egitto per la fine dell’anno. Il nuovo Egitto ha comunque riaffermato la sua volontà di svolgere un ruolo da protagonista nell’Area, in grado di parlare con tutti gli attori sul campo, anche grazie alla posizione meno schiacciata su Israele e sugli USA rispetto ai tempi di Mubarak.

Ciò detto, Hamas ha conseguito un sostanziale successo, che lo ricolloca al centro dell’attenzione palestinese ed araba. Nei giorni del dibattito all’Assemblea Generale dell’ONU, l’organizzazione era sembrata essere posta ai margini, ed essere divenuta irrilevante, mentre il grande trionfatore era parso il Presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas, accolto da ripetute standing ovation durante il suo discorso all’Assemblea.

Ma ora la pratica per il riconoscimento dello Stato palestinese è impantanata nei meandri del Consiglio di Sicurezza, dove pare destinata a restare insabbiata per molti mesi in attesa dell’esito del dubbio tentativo di rilancio negoziale proposto dal Quartetto (USA, Russia, UE e ONU), e le strade della Cisgiordania e della Palestina saranno riempite dai cortei di benvenuto ai prigionieri, rilasciati grazie alla iniziativa armata di Hamas.
È questo forse l’elemento centrale della vicenda: Hamas può affermare che Israele cede solo davanti al linguaggio della forza, che il negoziato non ha portato e non porta a niente. La diplomazia di Mahmoud Abbas ha ottenuto solo il rilascio sporadico di poche centinaia di prigionieri, per lo più di secondaria importanza, nulla a che vedere con il bottino che possono rivendicare i rapitori di Shalit.

In carcere resta, contro ogni aspettativa, Marwan Barghouti, il leader della seconda intifada condannato a cinque ergastoli, l’artefice del primo “Accordo della Mecca” tra Fatah e Hamas, il possibile candidato a succedere a Mahmoud Abbas alla presidenza dell’ANP: il suo possibile rilascio, dato per sicuro, dava probabilmente fastidio a tutti, a Israele, a Hamas, e alla stessa Autorità Nazionale Palestinese.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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