L’Editoriale

Palestinesi alla prova dell’unità

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:  29 aprile 2011

L’unico motivo per chiedere il congedo dal fronte è la pazzia, ma chi chiede il congedo dal fronte non è pazzo, recitava il comma 22 del famoso romanzo di guerra. I palestinesi si sono trovati di fronte ad un paradosso analogo in questi anni: finché persisteva la divisione tra Cisgiordania a guida Fatah e Gaza a guida Hamas, la loro richiesta di uno Stato palestinese non era credibile; ma ricostruire l’unità interpalestinese, con la costituzione di un governo di unità nazionale che vedesse la partecipazione anche degli islamisti, rendeva di per sé impossibile la ripresa dei negoziati di pace con Israele.

La leadership palestinese ha deciso di spezzare questo nodo gordiano, raggiungendo al Cairo un accordo che prevede la formazione di un governo ad interim composto da tecnocrati indipendenti ma graditi dalle diverse fazioni, per preparare le elezioni presidenziali e parlamentari, che dovrebbero tenersi entro un anno. Altri punti qualificanti sono la costituzione di una commissione di giuristi per vigilare sulla correttezza delle elezioni, e di un comitato congiunto che sovrintenda alla direzione e alla progressiva unificazione delle forze di sicurezza, nonché la liberazione dei numerosi prigionieri, detenuti da entrambe le parti.

Vi è infine accordo sulla riforma della stessa OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), con l’ingresso in essa di Hamas e delle altre forze islamiche finora escluse, e l’elezione di un nuovo Consiglio Legislativo Palestinese.
Dal colpo di stato del 2007, che ha portato la formazione islamica a impadronirsi della Striscia, il Presidente Mahmoud Abbas e l’Autorità Palestinese hanno atteso che il processo di pace decollasse e giungesse a risultati concreti, ma questi, va detto, non sono stati molto consolanti: le trattative sul final status non sono decollate, Netanyahu ha respinto nel settembre scorso l’ultima moratoria di tre mesi degli insediamenti, ripresi a pieno ritmo, e i colloqui sono congelati.

Nel frattempo, i palestinesi non sono restati fermi. È andato avanti il programma biennale del loro premier Fayyad per la costruzione di uno Stato palestinese dal basso che sarà completato a settembre, quando, alla sessione annuale della Assemblea generale dell’ONU, sarà proposto il riconoscimento dello Stato palestinese. Un passo a cui si sono detti pronti oltre 130 stati, sui 192 che compongono l’organo delle Nazioni Unite. È stata probabilmente proprio questa scadenza ad accelerare il negoziato tra le due fazioni palestinesi, per non presentarsi al voto con una Palestina ancora irrimediabilmente spaccata.

Gli Stati Uniti hanno tuttavia mantenuto ferma la loro contrarietà ad una dichiarazione unilaterale dello Stato palestinese, affermando che l’unica via perseguibile è quella del negoziato. Ma la loro credibilità è oramai profondamente scossa dalla mancanza di risultati: lo stesso veto da essi posto a febbraio alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sugli insediamenti israeliani, che li ha visti del tutto isolati, ha ulteriormente irritato e alienato i leader palestinesi, inducendoli a procedere in proprio.

Il fatto che l’intesa sia stata siglata al Cairo segna uno spostamento di peso dall’Arabia Saudita, dove nel 2007 era stato siglato il primo accordo interpalestinese della Mecca, all’Egitto, che tende a riprendere a pieno il suo storico ruolo di protagonista nel mondo arabo, dopo il periodo di appannamento dell’ultimo Mubarak.

Il nuovo Egitto ha pienamente legalizzato la Fratellanza Musulmana di cui Hamas è una costola, il che può aver rassicurato la formazione islamica, che può essere stata spinta anche dagli avvenimenti in corso in Siria, che mettono in discussione il regime degli Assad, suoi tradizionali ospiti, protettori e finanziatori.
Fatah e l’ANP, dal canto loro, prive dell’appoggio di Mubarak, hanno visto affievolirsi i canali di finanziamento provenienti dai paesi del Golfo, impegnati a erogare enormi somme per attutire i sommovimenti democratici delle loro popolazioni.

Ma il movimento democratico arabo ha influenzato anche i giovani, che hanno chiesto con imponenti manifestazioni a Gaza e in Cisgiordania la fine della divisione palestinese.

Le reazioni internazionali sono ovviamente più che prudenti: la Clinton ha rievocato nei confronti di Hamas le famose e oramai un po’ desuete tre condizioni del Quartetto (riconoscere Israele, rinunciare alla violenza e riconoscere i trattati pregressi), e numerosi senatori e deputati sia repubblicani che democratici hanno richiesto che si arrivi al blocco dei consistenti aiuti USA alla ANP. La Russia, al contrario, ha salutato positivamente l’accordo raggiunto.
L’UE, da parte sua, è stata più cauta, e la responsabile di politica estera, Catherine Ashton, ha dichiarato di dover studiare i dettagli dell’accordo, ricordando che l’Europa ha ripetutamente fatto appello alla riconciliazione interpalestinese ma che è importante venga riconfermato il ruolo centrale dei laici di Al Fatah e del Presidente Mahmoud Abbas. Non una parola, va detto, delle “tre condizioni” ad Hamas.

Va notato, peraltro, che la formazione di un governo di tecnici non prevede la partecipazione diretta di Hamas, e ciò potrebbe consentire una via di uscita rispetto alle condizioni del Quartetto. Quanto ai negoziati, non dovrebbe essere il governo a occuparsene, ma il presidente dell’OLP, cioè lo stesso Presidente Abbas, come egli stesso ha tenuto a sottolineare.

Per Israele, Netanyahu si è affrettato a dire che l’ANP deve scegliere tra la pace con Israele e quella con Hamas. A breve termine, ora per lui tutto è più semplice. Si allontana, infatti, la necessità di dover avanzare proposte di pace concrete e convincenti in occasione della sua prossima visita a Washington e anche di dover rafforzare l’unità interna del Paese di fronte alla incombente “minaccia islamica”. Ma la realtà è che Israele si troverà sempre più isolato e senza interlocutori, in un Medio Oriente in pieno cambiamento, che avviene senza il coinvolgimento dello Stato ebraico e certo non a suo favore.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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