L’Editoriale

Riaprire Gaza non solo a parole

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 6 giugno 2010

È possibile ora una riflessione più ampia sul grave incidente avvenuto al largo di Gaza. Che molti dei passeggeri della nave Marmara non fossero degli apostoli ghandiani cultori della non violenza appare oramai evidente, ma tanto più evidente è la prova di inadeguatezza offerta dall’intelligence israeliana e dai dirigenti militari e politici responsabili dell’operazione. L’assalto avrebbe potuto essere condotto con mezzi più adeguati, atti a evitare che vi fossero vittime, così tante vittime civili, e mezzi diversi avrebbero potuto essere usati per bloccare la flottiglia di navi, come hanno ampiamente chiarito alcuni tra i più qualificati esperti israeliani in materia di sicurezza.
Ma, soprattutto, quell’attacco non doveva essere ordinato, tanto erano evidenti i rischi di ripercussioni e le devastanti conseguenze politiche e diplomatiche che potevano prodursi, soprattutto con la Turchia.
Non che la Turchia sia priva di responsabilità. Ankara sta conducendo un complesso gioco volto a riposizionare la sua presenza nell’area mediorientale, in una logica neo-ottomana, che deriva anche dalle difficoltà incontrate dalla sua richiesta di adesione alla Unione Europea.
La polemica contro Israele, condotta con estrema acrimonia dal premier turco Erdogan, leader del partito islamico turco Akp, dopo l’operazione israeliana contro Gaza di un anno e mezzo fa, è portata avanti anche in chiave interna, per contenere e ridimensionare la pressione dell’esercito, tutore dell’eredità laica kemalista e convinto sostenitore dell’alleanza strategica e militare con Israele.
Ma non si può sottovalutare lo stesso Erdogan, quando nel suo recente incontro con Obama afferma che Israele rischia di perdere il suo unico amico in Medio Oriente. Già in questi giorni si è visto come l’irrigidimento turco rischi di rimettere in discussione l’accordo, che pareva profilarsi, per l’adozione di sanzioni più dure contro il governo di Teheran.
Inizia ora il balletto dell’accertamento delle responsabilità dell’accaduto a Gaza, con la pressante richiesta internazionale di una commissione di inchiesta e gli Usa che sostengono la creazione di tale commissione e propongono che un proprio osservatore partecipi ai suoi lavori: un’idea che l’Italia farebbe bene a sostenere, dopo il suo voto contrario alla dura risoluzione approvata dalla Consiglio per i diritti umani dell’Onu.
Ma il problema di fondo è più generale, è che l’attuale blocco di Gaza non è più sostenibile, come ha dichiarato anche la Clinton, e si devono trovare vie alternative per assicurare contemporaneamente condizioni di vita umane alla popolazione della Striscia e la sicurezza di Israele.
Gli accordi internazionali esistenti per controllare e combattere il contrabbando di armi verso la Striscia di Gaza consentono già oggi il controllo di navi e battelli sospetti, e sono già stati messi in opera.
Ciò che va costruito ora è un accordo per una riapertura controllata dei valichi di frontiera a Gaza, verso Israele e verso l’Egitto, che consenta l’afflusso dei beni destinati alla popolazione civile impedendo quello di ordigni bellici.
Ma tale riapertura postula in primo luogo il rilancio e la ridefinizione del ruolo e delle funzioni di Eubam, la forza europea preposta a controllare quegli accessi, la cui attività è stata congelata dopo il colpo militare di Hamas dell’estate 2007.
La riapertura dei valichi non può essere gestita a prescindere da Hamas, il cui controllo sulla Striscia non è stato intaccato da tutti questi anni di assedio e di blocco, e senza raggiungere una qualche forma di accordo interpalestinese, come quello che l’Egitto sta cercando di costruire. Un tentativo sostenuto dal Consiglio di sicurezza dell’Onu e dal Quartetto in risoluzioni formali, che non fanno più menzione delle tre condizioni richieste precedentemente dal Quartetto e rifiutate da Hamas (riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza e accettazione degli accordi pregressi).
La bozza di intesa egiziana è stata firmata da Al Fatah, ma non da Hamas, che continua a chiedere chiarimenti e ad avanzare riserve. In realtà, quello che Hamas vuole è l’assicurazione che, in caso si raggiunga l’accordo per formare un governo di unità nazionale di transizione e arrivare a elezioni per il Consiglio Legislativo e per il Presidente dell’Anp, la comunità internazionale e lo stesso Israele non continuino a portare avanti il boicottaggio di tale governo e il blocco di Gaza, ma assumano un atteggiamento più positivo, impegnandosi comunque a rispettare l’esito delle elezioni.
Nel discorso di Obama al Cairo vi era stato un passaggio significativo, in cui si riconoscevano i legami popolari e di massa di Hamas, pur continuando a richiedere il rispetto delle condizioni poste dalla Comunità internazionale alla formazione islamica. Ma successivamente la posizione Usa si è indurita, probabilmente per la preoccupazione che un successo della mediazione egiziana potesse indebolire l’Anp e lo stesso Abu Mazen, e questo aveva provocato, di fatto, il congelamento della mediazione del Cairo.
Stesso discorso vale per le trattative volte al rilascio del soldato israeliano Shalit, che si sono arenate non solo per le resistenze interne a Israele contro la liberazione di centinaia di prigionieri palestinesi, molti dei quali responsabili di gravi fatti di sangue, ma anche per i timori degli Usa per i contraccolpi che tale rilascio avrebbe potuto provocare sull’autorità del presidente palestinese.
È evidente quindi che la necessità oramai inderogabile di un nuovo atteggiamento verso Gaza, sia di Israele sia della comunità internazionale, oltre che di Hamas e della stessa Anp, richiede un approccio più complessivo, che tenga conto di tutti questi fattori e garantisca una stabilizzazione nell’area a medio termine, in attesa che i negoziati indiretti avviati tra tante difficoltà possano divenire negoziati diretti e possano portare a risultati concreti per risolvere i problemi connessi alla definizione del final status tra israeliani e palestinesi.
Tale approccio non potrà ovviamente prescindere dalle questioni relative al negoziato con Siria e Libano, senza di cui è difficile che la pace in Medio Oriente possa essere raggiunta e consolidata.
È certo dubbio che l’attuale governo israeliano possa accettare di collocarsi in questa ottica, e anche gli Usa devono sciogliere complessi nodi strategici e compiere scelte difficili.
L’Europa, senza arroganza e presunzione, può svolgere un ruolo essenziale per creare condizioni favorevoli a questo più realistico e complessivo approccio. Tanto più necessario mentre si avvicinano scadenze cruciali per la gestione del difficile nodo iraniano, le cui interconnessioni con l’irrisolta questione israelo-arabo-palestinese sono state ripetutamente evidenziate dallo stesso Obama.
L’alternativa è la continuazione di un semplice management del conflitto, costantemente esposto a crisi imprevedibili e potenzialmente devastanti, come quella di questi giorni, con ripercussioni sempre più gravi sullo stesso quadro regionale e internazionale.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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