L’Editoriale 

Obama: congelare gli insediamenti

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 3 giugno 2009

Obama ha deciso di non aspettare il 4 di giugno, al Cairo, per chiarire come la pensa a proposito di Israele e di Netanyahu, probabilmente anche per non sbilanciare l’annunciato discorso al mondo islamico, volto a forgiare con esso una nuova alleanza.

In una intervista alla National Public Radio, un network di radio statunitensi, ha affermato che “Gli Stati Uniti saranno più decisi nel portare avanti le loro obiezioni alla politica degli insediamenti israeliana nei Territori palestinesi rispetto alle precedenti amministrazioni”.

Con ogni probabilità, dopo l’incontro del Presidente con Netanyahu, la Amministrazione USA aveva voluto verificare quali passi concreti il Governo israeliano intendesse promuovere, in materia di insediamenti. Tutto quello che è stato annunciato è stata la rimozione di 26 insediamenti non autorizzati, che avrebbero già essere dovuti essere smantellati da anni, non senza aspre resistenze da parte di alcuni ministri e suscitando reazioni vandaliche da parte del movimento dei coloni, rivolte sia contro gli abitanti palestinesi che contro le forze di polizia. Veniva invece confermata la volontà di procedere con la cosiddetta “crescita naturale” degli insediamenti al di qua del muro e intorno a Gerusaemme Est, dove peraltro venivano annunciati nuovi quartieri e anche la costruzione di un nuovo albergo. Nei fatti, in nome della “crescita naturale” i coloni negli ultimi anni sono cresciuti di un terzo, da 200.000 a 300.000.

E’ probabile che, se il Leader israeliano avesse accettato la piattaforma “Due Stati Due popoli”, che avrebbe consentito il rilancio del negoziato con i palestinesi dal punto cui era giunto Olmert, ci sarebbe stato un maggior margine di tolleranza, per non turbare il clima delle trattative. Ma dal momento che sulla questione di principio il governo israeliano non ha voluto transigere, è sui suoi comportamenti concreti che si è concentrata l’attenzione.

Il richiamo alle precedenti amministrazioni USA fa riferimento alle dure discussioni seguite al vertice tra i due leader, in particolare durante un incontro a Londra, in cui Mitchell, l’inviato speciale per il Medio Oriente di Obama, ha chiarito alla delegazione israeliana, capeggiata dal Vice Premier Dan Meridor, che la attuale Amministrazione non si sente affatto obbligata dai presunti “accordi orali” con Bush, rivendicati dagli israeliani, in base ai quali era di fatto consentita la crescita naturale negli insediamenti al di qua del muro, e in maniera illimitata di quelli nell’area di Gerusalemme, mentre per quelli al di là del muro venivano previste limitazioni più strette. La delegazione americana ha dichiarato altresì di non sentirsi vincolata dalla famosa lettera di Bush a Sharon, dell’aprile 2004, in cui si faceva riferimento alla necessità di tener conto dell’esistenza dei maggiori blocchi di insediamenti nell’ambito del negoziato di pace finale, anche se Mitchell non ha mancato di ricordare che in quella lettera si stabiliva che per essi si sarebbe dovuto procedere in base a “scambi territoriali mutuamente concordati”, ed anche che la stessa lettera faceva esplicito riferimento al principio dei Due Stati.

Obama, nella sua intervista, ha affermato di ritenere che la corrente traiettoria delle cose nella regione è profondamente negativa, non solo per gli interessi di Israele, ma anche per quelli degli USA, e che Lo Status quo è insostenibile, anche per la stessa sicurezza di Israele. “Dobbiamo mantenere un costante convincimento, ha aggiunto, sulla possibilità di negoziati che portino alla pace, e io ho affermato che un congelamento degli insediamenti fa parte di questo processo”.

Alla domanda su quali misure la sua Amministrazione intendesse prendere di fronte al rifiuto israeliano di accettare tale congelamento, egli ha risposto che è troppo presto per rispondere, ma non ha escluso che si vada in quella direzione.

Secondo anticipazioni dei maggiori quotidiani USA, in realtà si comincia a prendere in esame la possibilità che in sede di Consiglio di Sicurezza l’opposizione statunitense si faccia meno automatica, di fronte a proposte non favorevoli ad israele; qualcuno ricorda la possibilità di intervenire sulle garanzie sui prestiti contratti dal Governo israeliano, come già fece Bush padre nei confronti di Shamir.

Altre misure sono in esame, come un rallentamento nella fornitura di parti di ricambio per gli armamenti o delle stesse munizioni.

Nessuno, negli Usa, vuole mettere in discussione il carattere strategico dell’alleanza con Israele o l’impegno per la sua sicurezza, ma il sostegno è destinato ad essere meno incondizionato e meno esclusivo.

Netanyahu ora si trova di fronte a una scelta difficile, e forse impossibile: il congelamento degli insediamenti metterebbe in discussione la sua coalizione, la continuazione della loro espansione l’asse strategico con gli USA. La furbizia, questa volta, non basta.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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