L’Editoriale 

Una stagione nuova in Palestina

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 17 marzo 2007

Il Governo di unità nazionale palestinese costituisce il logico completamento degli accordi tra Fatah e Hamas, varati alla Mecca un mese fa, alla presenza del Re saudita Abdullah.
Il tentativo  pervicacemente sviluppato in tutti questi mesi dai governi degli Usa e di Israele, volto a spingere Fatah alla prova di forza contro Hamas, estromettendo la formazione islamica dal governo e ricorrendo a elezioni anticipate, è quindi finito almeno in questa fase in un vicolo cieco.
D’altronde, le promesse fatte da Olmert ad Abu Mazen, lo scorso 24 dicembre, per rafforzarlo in  vista di tale confronto, quelle cioè di rimuovere i blocchi stradali dentro la Cisgiordania, di rilasciare un certo numero di prigionieri, di fornire soldi e armi e e di consentire l’afflusso di forze armate sufficienti allo scopo, sono state in larga misura disattese, e il Presidente dell’ANP ha dovuto ad un certo momento prendere atto della realtà, della mancanza cioè di un interlocutore israeliano attendibile. Il Premier israeliano è oggi fortemente indebolito, dopo il disastroso conflitto libanese di questa estate, in attesa della pubblicazione dei risultati dell’inchiesta sulla condotta della guerra, che con ogni probabilità potrebbe provocarne le dimissioni. La leadership palestinese, quindi, deve aver valutato che non esistono oggi le condizioni per un serio negoziato di pace, e quindi la prima priorità è diventata quella della stabilizzazione e del consolidamento del fronte interno.
La scelta di Abu Mazen è stata, in queste condizioni, sostanzialmente obbligata, anche se molti dei suoi consiglieri più anziani spingevano in direzione opposta. Il nuovo Governo consentirà, almeno  per qualche tempo, di porre fine allo scontro interno, e di avviare una azione di ripristino della legalità e di ricostruzione della disastrata economia palestinese.
Per questo, sarebbero necessarie la fine dell’isolamento internazionale, deciso dopo la vittoria di Hamas alle elezioni di un anno fa, e la ripresa degli aiuti internazionali. Le tre condizioni poste dal Quartetto, riconoscimento di Israele, fine della violenza, riconoscimento degli accordi pregressi, non sono pienamente accolte dagli accordi di governo sottoscritti alla Mecca. Solo il terzo punto è in qualche modo richiamato, dato che il nuovo Governo si impegna al “rispetto” di tali accordi. Questi accordi contengono tuttavia sia il riconoscimento della Stato ebraico che la rinuncia alla violenza. Inoltre, il richiamo alle dichiarazioni dei Summit arabi include la accettazione del Piano Arabo di pace del 2002, che propone un riconoscimento da parte di tutti gli Stati arabi di Israele, se questo accetta la creazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme, ed una soluzione “equa e concordata” del problema dei rifugiati: un riconoscimento quindi condizionato all’esito della trattativa, e non preliminare.
Infine, nel documento a base degli accordi (il “documento dei prigionieri”) vi è l’indicazione di concentrare la lotta armata dentro i Territori occupati, rinunciando di fatto alle iniziative terroristiche in Israele. Ed anche per queste azioni armate viene avanzata dai palestinesi la proposta di una tregua di lungo periodo.
La mancata accettazione integrale delle tre condizioni ha provocato reazioni diverse: Olmert pare irremovibile nel chiedere la loro accettazione integrale, poiché questo gli consente di mantenere il cordone sanitario intorno al Governo palestinese, e quindi di rinviare l’avvio di negoziati seri per la soluzione definitiva del conflitto, con le decisioni dolorose che questi comporterebbero.
Gli Stati Uniti lo hanno seguito sullo stesso terreno, anche se con qualche sfumatura più attendista.
La Russia, che ha ricevuto il leader di Hamas, Meshal, ai più alti livelli del Governo, pare a sua volta smarcarsi dalla linea più oltranzista, e così il nuovo Segretario Generale dell’ONU.
L’Unione Europea, divisa al suo interno, ha adottato una posizione più sfumata, affermando che il nuovo governo dovrà “riflettere” (reflecting) le tre condizioni, il che equivale a dire muovere in quella direzione, non accettarle in toto. Spagna, Francia e Italia hanno assunto posizioni decisamente più aperturiste. L’Unione Europea controlla in larga misura i cordoni della borsa, e le sue scelte, auspicabilmente positive, possono essere decisive, per la tenuta della nuova formazione palestinese.
La realtà è che Hamas è riuscita a sopravvivere a tutto questo periodo di isolamento, e che essa oggi appare pienamente legittimata nel contesto arabo, accolta nella Umma degli Stati arabi.
Al Fatah, dal canto suo, sconta la mancanza di riforma e democratizzazione interne e di un serio lavoro, volto a ritessere i collegamenti sociali ormai più che usurati; nonché la marginalizzazione dei dirigenti più giovani, legati al leader incarcerato Marwan Barghouti.
La doppia presenza di Abu Mazen e di Haniyeh al Summit della Lega araba di Ryad, che si terrà a fine mese, è destinata a sancire questo pieno reintegro della formazione islamica. Il Summit dovrebbe rilanciare il piano di pace di Beirut del 2002, che oggi anche Olmert dichiara interessante e possibile base per un rilancio del negoziato, salvo poi non spiegare perché quel riconoscimento condizionato di Israele, che il Piano prevede, non possa essere accoglibile se a proporlo è il nuovo Governo palestinese.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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