L’Editoriale 

Hamas, istruzioni per l’uso

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 22 agosto 2007

Su Hamas si è registrato, negli ultimi mesi, un continuo stop and go da parte dei più importanti esponenti di governo e personalità del centrosinistra. Alle caute aperture ha fatto puntualmente seguito una levata di scudi da parte dei governanti israeliani o di qualificati organi di stampa italiani, cui hanno corrisposto messe a punto e sostanziali retromarce degli interessati: lo stesso Prodi, dopo aver sostenuto la necessità di dialogo con la organizzazione islamica, è in gran parte tornato sui suoi passi, ritornando a porre come pregiudiziale la accettazione delle tre condizioni poste dal Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu), e cioè il riconoscimento di Israele, la rinuncia alla violenza e la accettazione degli accordi pregressi.

La questione Hamas assume perciò per i nostri politici del centrosinistra la funzione di delicata cartina di tornasole, sia rispetto agli Usa, sia nei confronti dei media nazionali, sia nei rapporti con Al Fatah e ancor più con Israele, e da ciò derivano in larga misura le contraddizioni e le incertezze che si sono registrate. In realtà, le tre condizioni del Quartetto sono in larga parte ideologiche, e non usuali nell’ambito delle relazioni internazionali.

Condizioni simili non vengono richieste agli altri governi di stati in conflitto con Israele, come la Siria o il Libano, per mantenere o stabilire rapporti. Gli stati in guerra, normalmente, si riconoscono vicendevolmente al termine del conflitto, non prima dell’inizio dei negoziati, quando ancora non sono definiti neanche i rispettivi confini. In realtà, le tre condizioni, poste dopo la inaspettata vittoria di Hamas alle elezioni legislative del 2006, sono state concepite, sia da Israele che dagli Usa, come un cordone sanitario per isolare e strangolare i governi palestinesi che ne fossero scaturiti, e impedire un accordo con Al Fatah, cercando così di spingere il presidente Abu Mazen ad uno show down che ribaltasse l’esito di quelle consultazioni, considerate legali ma non legittime. D’altronde, che Israele abbia costantemente perseguito una politica volta a scoraggiare ogni scelta di unità interpalestinese, e oggi ogni possibilità di ricomposizione dopo il colpo di forza effettuato a Gaza, non è un mistero. Si potrebbe ipotizzare che i governanti dello stato ebraico preferiscano negoziare la pace con una leadership palestinese debole e condizionabile, ottenendo quindi condizioni meno onerose per arrivare all’accordo, in particolare per quanto riguarda gli aspetti territoriali, i rifugiati, Gerusalemme.

Ma è questo il vero interesse di Israele? Negoziare una pace imposta, non legittimata dal consenso popolare palestinese, firmata da rappresentanti espressione di una minoranza sempre più screditata, destinata ad alimentare ogni sorta di irredentismo e in ultima analisi a rafforzare proprio quelle componenti più estremistiche, che invece si sostiene di voler indebolire? Si è sicuri che queste scelte non portino al rafforzamento e in prospettiva alla vittoria della formazione islamica anche in Cisgiordania, o in eventuali future elezioni politiche e presidenziali? Non è meglio arrivare ad una pace, più sofferta ma più giusta, che sia pure con difficoltà possa registrare il consenso della maggioranza palestinese (nonché di quella israeliana, naturalmente), e costringere al rispetto la stessa componente islamica, attraverso quel referendum ipotizzato dagli Accordi della Mecca? Ed è questo il vero interesse di Al Fatah, sfruttare il fuori gioco in cui si è posto Hamas per assicurarsi l’esclusiva della rappresentanza e dei rapporti internazionali, e il monopolio nella gestione dei cospicui aiuti internazionali, economici e militari, il cui rubinetto è stato ora abbondantemente riaperto? Non è più importante sviluppare una coerente azione di autoriforma, sbaraccando le vecchie e screditate gerontocrazie al potere in questa organizzazione che non tiene il suo congresso da circa vent’anni, e portando avanti una paziente azione di ritessitura dei rapporti sociali, oramai logorati da tanti anni di gestione totalizzante e corrotta del potere? E che fare di Gaza, considerarla oramai perduta e abbandonarla all’estremismo, o addirittura scegliere di strangolarla economicamente, sperando in una rivolta della popolazione? Non significa questo scherzare col fuoco, spingere Hamas a rilanciare l’opzione terroristica o addirittura all’alleanza con Al Qaeda? È evidente che, da subito, qualcosa va fatto per appoggiare Abu Mazen, sia da parte israeliana che da parte internazionale: ulteriori liberazioni di prigionieri, rimozioni dei blocchi stradali interni alla Cisgiordania, aiuti economici e anche di sicurezza.

E si deve rilanciare il negoziato sul Final Status, in vista di quella Conferenza internazionale annunciata dal presidente Bush per il prossimo novembre.
Ma il problema è se tutti questi passi vengono concepiti come mezzi per colpire e isolare ancora di più Hamas, o se ci si muove, come propongono i maggiori stati arabi, per favorire la ricostituzione di una unità interna palestinese che superi il fossato che si è aperto.

È evidente che Hamas deve pagare un qualche prezzo politico per il colpo attuato nella Striscia, tornare sui suoi passi, accettare di ricostituire una situazione di legalità interna (che peraltro lo stesso Abu Mazen non può ignorare nei suoi delicati aspetti costituzionali connessi alla decisione di formare un governo di emergenza non ratificato dal consiglio legislativo).

Ma il problema è in che direzione si intende andare: la strada che pare realisticamente perseguibile è il ritorno agli accordi della Mecca, magari chiarendo a fondo le residue ambiguità che essi contenevano.

Non si può riproporre ad Hamas una improbabile accettazione delle tre condizioni del Quartetto, ma si deve chiedere:

– Una accettazione esplicita e inequivoca del Piano di pace arabo, che offre ad Israele il riconoscimento di tutti gli stati arabi in cambio della restituzione dei territori occupati, della creazione di uno stato palestinese con capitale Gerusalemme Est e una «soluzione giusta e negoziata del problema dei rifugiati» (concordata, cioè, con lo stesso Israele);

– La rinuncia al terrorismo contro i civili, e la accettazione di una tregua di lungo periodo per le azioni militari contro l’occupante (che deve essere tuttavia concordata bilateralmente con Israele e coinvolgere anche la Cisgiordania);

– La riconferma del «rispetto» dei trattati pregressi firmati dall’Olp, già contenuta negli accordi della Mecca;

– La riconferma della delega a Abu Mazen , in quanto presidente dell’Olp, a negoziare l’accordo finale con Israele, che se non approvato dal Consiglio legislativo palestinese dovrebbe essere sottoposto a referendum, il cui esito sarebbe vincolante per tutte le parti palestinesi.

Ad entrambe le parti, infine, va richiesto l’impegno conseguente alla unificazione delle forze di sicurezza, con una direzione che ne assicuri una utilizzazione non di parte.

La comunità internazionale e lo stesso Israele dovrebbero impegnarsi a rispettare un governo interpalestinese che nascesse su queste basi, e a superare ogni forma di boicottaggio nei suoi confronti. Si tratta di favorire, cioè, non l’acutizzazione dello scontro interno palestinese, destinato in prospettiva a favorire principalmente Hamas, ma un nuovo accordo tra le diverse fazioni, un Mecca 2 che possa fruire del sostegno internazionale e di quello arabo e della non ostilità pregiudiziale israeliana. Questi parametri paiono sufficientemente rispettosi dei diversi interessi in causa, e tali da garantire un nuovo spazio alla iniziativa italiana in Medio Oriente (già avviata con la lettera dei dieci ministri degli esteri della Ue), in Europa e nell’ambito internazionale.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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