L’Editoriale 

Quella finestra non si deve chiudere

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 19 ottobre 2006

Non è forse ancora ben chiaro che dopo la guerra del Libano non esiste più, di fatto, una proposta di pace per il Medio Oriente.
Non una proposta della comunità internazionale, dato che la road map è un fantasma evanescente, sulla cui applicabilità nessuno fa affidamento.
Non una proposta israeliana, dato che il piano di ritiro unilaterale dalla Cisgiordania, o “Piano di convergenza”, su cui Olmert aveva vinto le elezioni, è considerato da quello stesso governo «non più in agenda », dopo l’esito fallimentare dei precedenti ritiri unilaterali da Gaza e dal Libano.
Ritiri che non hanno dato sicurezza allo stato ebraico e hanno aperto la strada alla continuazione dei lanci di razzi e missili, ai rapimenti dei soldati israeliani e alla recente guerra con Hezbollah.
Quanto ai palestinesi, la finestra di opportunità che era sembrata aprirsi, con il tentativo di formare un governo di unità nazionale, rischia di essere sbarrata anzitempo dal gioco di veti, di rilanci e di scavalcamenti contrapposti tra le diverse fazioni.
L’accordo che si era delineato a settembre tra Abu Mazen e Ismail Haniyeh, il presidente e il premier dell’Anp, faceva proprio il cosiddetto Documento dei prigionieri, e su alcuni punti andava oltre, accettando le decisioni del piano arabo di Beirut, che prevedevano un riconoscimento di Israele condizionato alla creazione di uno stato palestinese con capitale Gerusalemme Est, e confermando il rispetto degli accordi precedentemente firmati dall’Olp.
Altro aspetto essenziale, era la delega a negoziare attribuita a Abu Mazen, in quanto presidente dell’Olp (e non dell’Anp), Olp di cui si prevedeva la riforma e la democratizzazione, con l’ingresso delle formazioni islamiche. Haniyeh veniva immediatamente sottoposto al fuoco di sbarramento della fazione estera di Hamas, guidata da Meshall, che lo accusavano di essere andato oltre il mandato conferitogli, e iniziava il gioco delle ritrattazioni e delle smentite.
Abu Mazen rilanciava, e nel suo discorso all’Assemblea dell’Onu del 22 settembre, dichiarava che il nuovo governo avrebbe accettato integralmente le tre richieste della comunità internazionale (riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza e riconoscimento dei trattati pregressi), attirandosi l’immediata smentita di Hamas e dello stesso Haniyeh, la cui posizione si era fatta ancora più precaria.
Cosa sia successo, non è chiaro. Secondo alcune interpretazioni, il forcing di Abu Mazen sarebbe stato provocato dalle assicurazioni ricevute in Qatar da Meshall, in cambio della promessa di un suo possibile rientro in Palestina.
Meshall infatti non si fida più di Haniyeh, e vuole prendere il potere nelle sue mani.
Secondo altri, esso sarebbe stato motivato dalle pressioni e dalle promesse degli Stati Uniti, ostili ad Hamas in quanto parte della galassia terroristica, che gli avrebbero assicurato consistenti finanziamenti da maneggiare direttamente bypassando il governo di Hamas, e altre concessioni da parte degli stessi israeliani.
Al contrario, la linea dell’Unione Europea (recepita anche dal Quartetto), si era espressa decisamente a favore dell’ipotesi di governo di unità nazionale, facendo intravedere la possibilità della fine delle sanzioni imposte al governo palestinese.
In questi giorni vanno moltiplicandosi gli sforzi dei principali governi arabi, dagli egiziani, all’Arabia Saudita, allo stesso Qatar, per riannodare le fila interrotte. Si parla di un possibile governo di tecnici sorretto da Fatah e Hamas, con elezioni presidenziali e legislative congiunte l’anno prossimo.
Ma occorre tener presente che, contemporaneamente, la parte militare di Hamas, collegata ad alcuni fra gli elementi più militanti di Al Fatah, sta accumulando armi di ogni tipo (inclusi missili e razzi anticarro), a Gaza, con la prospettiva di «fare come in Libano», in caso di un nuovo scontro militare con Israele.
Israele, dal canto suo, non sta a guardare, e moltiplica gli attacchi mirati e i blitz per scovare i depositi di armi e i tunnel da cui passano.
L’Italia e l’Europa hanno saputo intervenire con intelligenza creativa nella crisi libanese, superando gli approcci unilateralistici, e assicurando la presenza di una forza internazionale di pace, che può costituire un esempio importante anche nella soluzione del conflitto israelo-palestinese.
Non debbono restare assenti, e debbono intervenire per aiutare il varo del nuovo governo palestinese, per favorire il varo di misure unilaterali di fiducia, per rilanciare il negoziato sul Final Status.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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