L’Editoriale 

La tela di Penelope

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 6 dicembre 2006

La formazione del Governo palestinese di unità nazionale somiglia sempre di più alla tela di Penelope, disfatta ogni notte. Non può essere considerato casuale che l’annuncio che i negoziati erano arrivati a “un punto morto” sia stato dato da Abu Mazen nel corso della conferenza stampa con Condoleezza Rice, durante la sua ultima missione mediorientale.

Gli Stati Uniti, in questi mesi, hanno condizionato il loro via libera al nuovo governo, con la conseguente cessazione dell’embargo internazionale, al rispetto integrale delle “tre condizioni” poste al Governo Hamas dal Quartetto (USA, UE, Russia e ONU), e cioè il riconoscimento di Israele, la cessazione delle violenze, il riconoscimento dei trattati pregressi. E i Governi europei, incluso in buona sostanza quello italiano, hanno finito per accodarsi. Ora, si deve avere l’onestà di riconoscere che chiedere il rispetto integrale delle tre condizioni equivale a rendere impossibile l’accordo tra le diverse fazioni palestinesi.

Hamas, nella sua componente più realistica, può forse arrivare a accettare un riconoscimento condizionato di Israele, facendo così cadere la sua pregiudiziale ideologica, e legandolo ad un positivo esito del negoziato, come proposto dal Piano arabo di pace del 2002. Ma non può accettare un riconoscimento pregiudiziale, che d’altronde Israele non ha richiesto né alla Giordania, né alla Siria, e che non chiede oggi al Governo libanese.

D’altronde, la rinuncia alla violenza va richiesta per le azioni rivolte contro i civili, ma il diritto alla lotta armata contro gli occupanti è un diritto riconosciuto internazionalmente, e per questo aspetto va ricercata una tregua di lunga durata, una hudna.

Quanto ai trattati pregressi, di cui va confermata la validità, non si può ignorare il vicolo cieco del processo di pace, che in base agli accordi di Washington doveva avere termine nel 1998.

L’Europa, e il Governo italiano, dovrebbero dichiarare che un Governo di Unità Nazionale basato sul Piano Arabo di pace, e sul più recente “Documento dei prigionieri”, che si ispirano a questi più realistici principi, sarebbe riconosciuto come un interlocutore legittimo, e potrebbe fruire degli aiuti internazionali, e dovrebbero altresì attivarsi perché il Quartetto adotti questo approccio più realistico.

Una presa di posizione di questo tipo avrebbe una funzione essenziale per far superare ad Hamas le resistenze all’accordo, e anche per far scegliere ad Abu Mazen il rilancio della trattativa per il nuovo governo, respingendo le suggestioni di alcuni dei suoi senior adviser, che lo spingono verso una prova di forza di incerta praticabilità e di ancora più incerto esito.

E’ evidente, infatti, che la strada della dissoluzione del Governo Hamas potrebbe rivelarsi impervia, e che l’esito di eventuali elezioni sarebbe quantomeno dubbio, dato che la crisi esistenziale ed il logoramento di Al Fatah sono ben lontani dal potersi dire superati.

D’altronde, respingere Hamas all’opposizione potrebbe rivelarsi una scelta improvvida, rischiando di alimentare le spinte militaristiche e le opzioni terroristiche al suo interno. La stessa Rice ha dovuto riconoscere, nelle scorse settimane, che è “meglio ritrovarsi quelli di Hamas al potere che nelle strade, armati e mascherati”.

Vi è, infine, una componente diciamo così metafisica nelle trattative in atto: mentre il negoziato ufficiale avviene tra Al Fatah e Hamas, sotto la sorveglianza USA, il negoziato reale è in atto tra Hamas ed Israele, con la mediazione egiziana, e si pone l’obbiettivo ambizioso di un accordo quadro, di un “ package ” che contiene il rilascio di Shalit, il soldato israeliano rapito, e quello parallelo di  1000 – 1200 prigionieri palestinesi, in cui Hamas ha chiesto di includere il leader di Al Fatah, Marwan Barghouti; il consolidamento della tregua e la sua estensione alla Cisgiordania; la fine dell’isolamento internazionale; la formazione del Governo palestinese di unità nazionale.

E’ impressionante vedere come i dirigenti della formazione islamica, che fino a qualche mese fa subivano l’ostracismo delle diverse capitali arabe, sono oggi interlocutori che si fanno desiderare, come è successo in Egitto a Meshall, che oggi appare, piaccia o non piaccia, come un leader autorevole e riconosciuto.

Lo stesso Hanyieh sta portando avanti il suo tour di un mese dei principali Stati arabi, e non è parso particolarmente turbato per la richiesta di dimissioni avanzata venerdì scorso dal Comitato Esecutivo dell’OLP, richiesta peraltro subito respinta.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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