L’Editoriale 

Italia Europa Medio Oriente

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:24 maggio 2006

Con la formazione del Governo Prodi, può essere utile riconsiderare le linee guida della politica estera italiana ed europea in Medio Oriente.

In particolare, si deve fare fronte alla nuova situazione determinata dalla vittoria di Hamas alle elezioni per il Consiglio Legislativo Palestinese.

La presenza di Hamas alla testa del Governo palestinese non è un fenomeno transitorio, destinato ad esaurirsi in breve tempo. È probabile che questa organizzazione islamica riesca a radicarsi ulteriormente nella società palestinese, approfittando anche della grave crisi attraversata da Al Fatah, che può essere definita di natura esistenziale. Fatah si trova infatti di fronte a un difficile processo rifondativo, il cui esito non è certo scontato.

La questione è se è possibile che i nuovi governanti palestinesi adottino la strada presa da Erdogan, il Premier turco, o invece finiscano per adottare una deriva iraniana o peggio qaedista.

La formazione islamica palestinese dovrà mettere a confronto la pratica quotidiana di governo con il suo bagaglio ideologico, probabilmente facendo fronte a momenti di confronto interno assai aspro. Hamas, in altri termini, è chiamata a scegliere se essere partito di governo o partito di lotta, di lotta armata. Una scelta che cercherà in ogni modo di rinviare, sulle orme dell’IRA irlandese rispetto al Sinn Fein.

Con Hamas, dunque, è necessario misurarsi, senza naturalmente fare sconti e senza sorvolare sulla gravità del suo Statuto politico, che contiene parti assolutamente inaccettabili.

La Comunità internazionale continua ad auspicare il rilancio della Road Map, e a chiedere ad Hamas il riconoscimento di Israele, quello degli accordi esistenti, e la rinuncia alla violenza. Il rifiuto di Hamas ha causato il blocco dei contatti ufficiali e degli aiuti economici rivolti a quel governo.

Gli Accordi di Washington del 1993 sono certamente ancora validi, e costituiscono l’impalcatura giuridica su cui si basa la stessa Autorità Nazionale Palestinese. Partecipando alle elezioni legislative, malgrado gli attacchi di Al Qaeda, Hamas di fatto li ha riconosciuti, mentre aveva rifiutato di partecipare alle precedenti elezioni presidenziali. Anche se certo si tratta di un riconoscimento parziale e insufficiente.

Tuttavia, quegli accordi prevedevano il termine dei negoziati sul Final Status entro cinque anni.

Quel tempo è oramai scaduto. La stessa Road Map, concepita come un percorso di pace a tappe, si è tramutata in un vicolo cieco. Essa è oramai un fantasma evanescente, che viene tenuto in vita perché costituisce “the only game on the table”. Va detto peraltro che anche la adesione di Israele alla Road Map è stata solo parziale, considerate le 14 sostanziali riserve messe a verbale da Sharon.

È necessario ricominciare dalla fine, dal Final Status, anche trovando canali informali di contatto, perché è impensabile che si possa rilanciare la trattativa, arrivando a superare le logiche unilaterali e il rifiuto reciproco, ignorando il possibile punto di arrivo del negoziato.

L’elemento prevalente oggi, in questa nuova fase, è l’unilateralismo.

Quello israeliano, che pur rinunciando al sogno del Grande Israele sceglie di effettuare nuove ritirate unilaterali in Cisgiordania, abbandonando gli insediamenti localizzati al centro delle aree palestinesi, e non escludendo di arrivare a definire con lo stesso metodo i confini di Israele, entro il 2010. Quello di Hamas, che tiene un basso profilo e mantiene la tregua, e cerca di stabilizzare il suo governo, risanando i sistemi di governo e collegandosi alle aspirazioni più sentite della popolazione. Ma continua a rifiutare di condannare il terrorismo, di riconoscere lo Stato ebraico e di negoziare con esso.

Si tratta di unilateralismi paralleli, che in una certa misura si giustificano e si sorreggono a vicenda, anche se, naturalmente, non vanno posti sullo stesso piano.

Per una certa fase, questa situazione può anche reggere, ma si deve essere consapevoli che per questa via non si arriverà ad una pace tra israeliani, palestinesi e arabi, e la persistenza di questo focolaio di guerra fungerà da esca alle tensioni esplosive che stanno dilagando nella regione, costituendo un potente elemento di destabilizzazione.

Se non è possibile, oggi, ritornare ad un pieno negoziato bilaterale, può almeno essere individuato un percorso fatto di passi unilaterali, paralleli e di fatto concordati, in modo da rompere l’attuale muro di incomunicabilità tra le parti, e che in particolare consenta ad Hamas di superare la sua posizione di rifiuto, anche gradualmente? È questo un terreno su cui può utilmente esercitarsi la diplomazia, quella ufficiale e quella informale.

Se il Governo Hamas non vuole riconoscere preliminarmente Israele, si può chiedergli di accettare il Piano Arabo, votato all’unanimità a Beirut nel 2002, che prevedeva il riconoscimento da parte di tutti gli Stati Arabi, se Israele si fosse ritirato dai territori occupati nel ’67, avesse accettato uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale, e dato una soluzione equa e concordata alla questione dei rifugiati. Non si tratta, sia chiaro, di affidare alla Lega Araba un ruolo negoziale centrale, che avrebbe difficoltà a svolgere dato la sua debolezza, ma solo di superare il principio del rifiuto a negoziare con lo Stato ebraico. La proposta araba è infatti insufficiente per l’avvio del negoziato con Israele, che non accetta di ritirarsi preliminarmente e di tornare ai confini del ’67, ma rimuoverebbe il rifiuto ideologico di Hamas. Su questo, si sta esercitando una forte pressione diplomatica degli Stati arabi moderati nei confronti del Governo palestinese, che dà risposte ambigue e diverse.

Un secondo punto è la rinuncia alla violenza. Ma su questo vi è una distinzione da fare: il diritto alla lotta armata contro l’occupante è riconosciuto internazionalmente, come ha ammesso la stessa Tzipi Livni, Ministro degli Esteri israeliano. Quello a cui Hamas deve rinunciare in linea di principio è il terrorismo contro i civili, impegnandosi a contrastare chi vi ricorre. Quanto alla lotta armata, la cosa importante è che venga prorogata a lungo termine la tregua, la “Hudna” già dichiarata e sostanzialmente rispettata da Hamas.

Va detto, per chiarezza, che la stessa ipotesi di questa evoluzione è per l’appunto una ipotesi non scontata, cui osta la dura scorza ideologica e il fondamentalismo religioso di Hamas.

Tuttavia, pare opportuno che gli sforzi della diplomazia europea (e anche di Israele) si concentrino su questi due punti prioritari, collegando alla loro accettazione una possibile ripresa anche parziale dei contatti con i ministeri civili palestinesi e degli stessi aiuti.

Il grosso nodo è infatti la questione degli aiuti economici ai palestinesi, essenziali per alleviare le condizioni di vita della popolazione ed anche per far funzionale la macchina amministrativa e i servizi civili. Se il rubinetto viene chiuso totalmente, il crollo è inevitabile, e le conseguenze ricadranno sulla potenza occupante, che in base al diritto internazionale dovrà assumersi la responsabilità delle condizioni della popolazione civile.

Ma ancora più gravi potrebbero essere le conseguenze politiche, dato che Hamas potrebbe essere indotta ad abbandonare la sua scelta parlamentare e a rientrare nella clandestinità, e comunque a stringere ancora di più i legami con l’Iran sciita, da cui pure è ideologicamente lontana, dati i suoi storici legami con i Fratelli Mussulmani egiziani. Nuovi varchi potrebbero così aprirsi ai tentativi di penetrazione di Al Qaeda.

Sulla parte israeliana, per converso, Olmert, potrebbe decidere, anch’egli unilateralmente, di bloccare gli omicidi mirati (se la tregua regge), di riprendere il trasferimento delle tasse dei palestinesi, di consentire la riunione del Parlamento e del Governo palestinesi (oggi costretti a convocarsi per teleconferenza), di liberare un consistente numero di prigionieri palestinesi (anche appartenenti ad Hamas), e di prendere misure specifiche per alleviare la vita quotidiana della popolazione palestinese sotto l’occupazione. Sarebbe importante, in particolare, che trovasse il modo, insieme a Bush, di liberare Marwan Barghouti, il giovane leader della seconda intifada, il solo che appare oggi in grado di rivitalizzare Al Fatah.

Lo stesso piano di ritiri dalla Cisgiordania, in quest’ottica, assumerebbe un diverso significato.

Se questi segnali, presi autonomamente dalle parti, venissero scambiati, avrebbe senso un rilancio parallelo del negoziato bilaterale di Israele con il Presidente Abu Mazen, che invece difficilmente Olmert potrebbe accettare in presenza di un Governo Hamas arroccato sulle sue pregiudiziali di rifiuto ideologico. Con Abu Mazen si tratterebbe ufficialmente, con Hamas ci si scambierebbero dei segnali di volontà negoziale, e si troverebbero dei canali informali di trattativa sul Final Status.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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