L’Editoriale 

Il dramma di Olmert

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:15 agosto 2006

Olmert, il premier israeliano, ha molto di una figura shakespeariana. In Europa è accusato di aver sviluppato una reazione sproporzionata al rapimento dei soldati israeliani. In patria è accusato da alcuni dei più autorevoli commentatori, come Nahum Barnea, uomo di sicura fede pacifista, di non aver utilizzato a fondo il potenziale del suo esercito per stroncare la resistenza degli Hezbollah, lasciando per oltre un mese le città del nord del paese esposte alla pioggia quotidiana di razzi e missili, con numerosi morti, feriti e incalcolabili danni economici. Ma il danno maggiore che gli viene rimproverato è quello di non aver vinto, malgrado l’offensiva lanciata negli ultimissimi giorni, che ha portato i soldati di Tsahal a toccare le sponde del fiume Litani, lasciandosi tuttavia alle spalle numerose e
inespugnate sacche sotto il controllo delle milizie sciite. Consentendo così una vittoria sostanziale a Hezbollah, che ha saputo resistere, e ai suoi ispiratori iraniani e siriani.
Questo rappresenta una lesione non lieve per lo stesso potere di deterrenza di Israele verso tutto il contesto regionale in cui è collocato. Il timore delle centinaia di morti che un uso più massiccio dell’esercito avrebbe comportato è
stato certamente uno degli elementi di valutazione del premier, ma probabilmente non l’unico. L’altro aspetto è stata la discussione che parallelamente andava sviluppandosi nella comunità internazionale per arrivare alla approvazione di una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ed il timore che un eccessivo uso della forza potesse isolare le posizioni israeliane nel corso della discussione, facendo pendere il piatto della bilancia a favore di una richiesta incondizionata di cessazione delle ostilità, in cui gli interessi e i problemi di sicurezza israeliani non venissero adeguatamente valutati e tutelati. L’esperienza delle reazioni internazionali dopo l’incidente di Cana, con le decine di civili uccisi per errore dall’aviazione, ha pesato probabilmente più di quanto non si pensi.
La risoluzione 1701, approvata all’unanimità dal Consiglio nei giorni scorsi, rappresenta certamente un buon punto di
equilibrio, anche se non è scevra da ambiguità. Prima fra tutti quella sulla mancata definizione delle regole di ingaggio della forza internazionale di interposizione sotto l’egida dell’Onu, che non viene definito se si basi sull’articolo 6 o sull’articolo 7 della Carta dell’Onu, su funzioni cioè di peacekeeping o piuttosto su più incisivi compiti di peace
enforcing, certamente più congrui rispetto alla complessità degli obiettivi proposti, primo fra tutti l’affiancamento dell’esercito libanese nel realizzare il disarmo delle milizie sciite nel sud del paese, in modo da impedire che continuino ad attaccare Israele.
Se si considera che il budget militare di Hezbollah supera nettamente quello complessivo dell’esercito libanese, si comprende come l’obbiettivo del ripristino pieno della sovranità del governo libanese sul suo intero territorio sia più facile a dirsi che a realizzarsi, come è testimoniato dalle divisioni già emerse ieri in quel governo, di cui peraltro Hezbollah fa parte. La cosa più probabile, peraltro, è una con- fluenza di quelle milizie nell’esercito regolare, dove
già la maggioranza dei soldati (se non degli uf- ficiali) è sciita, con il rischio sostanziale che tutto cambi perché nulla cambi. Tuttavia, la risoluzione si fa carico pienamente delle esigenze di sicurezza di Israele, come mai prima d’ora, e riconosce che a farsene carico deve essere l’intera comunità internazionale, a partire dalla stessa forza di interposizione che verrà dispiegata, e questo è sicuramente un risultato non piccolo della diplomazia dello stato ebraico. Essa non condanna la reazione israeliana, sancendone implicitamente la legittimità e la fondatezza, a seguito dell’attacco portato dagli Hezbollah. Va detto che la risoluzione approvata dovrà ora essere completata con atti successivi sia di KofiAnnan, per determinare più precisamente le regole di ingaggio della missione internazionale, sia per proporre una soluzione per l’area delle Fattorie di Shebaa, sotto controllo israeliano, ma rivendicate sia dalla Siria che dal Libano. Le fattorie rappresentano l’unico elemento di contenzioso tra Israele e Libano, che è necessario rimuovere per togliere pretesti a Hezbollah e rendere stabile il cessate il fuoco. La scelta è stata quella di non inserire
la questione nella risoluzione approvata, perché non sembrasse che si voleva dare un premio all’iniziativa degli Hezbollah.
Per tutto questo, sarà probabilmente necessaria una nuova risoluzione del Consiglio.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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