L’Editoriale 

Accordo a Gaza o Hamas prende tutto

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 20 dicembre 2006

Le posizioni di D’Alema, quando in questi giorni incontrerà Fouad Sinora e Abu Mazen, assumeranno necessariamente una doppia valenza, di sostegno e di invito alla moderazione. In Libano, Hezbollah ha cercato di garantirsi, sostanzialmente, un diritto di veto sulle decisioni di governo. Ma la portata delle grandi manifestazioni di queste settimane esprime anche l’aspirazione di fondo delle masse sciite, che sono oramai oltre il 40% della popolazione, e si sentono sostanzialmente sotto rappresentate dall’attuale quadro istituzionale libanese. Le proposte di mediazione avanzate dalla Lega Araba, che prevedono una redistribuzione dei ministeri, ne tengono conto e debbono quindi essere recepite.

Ancora di più ciò vale per Abu Mazen. Il presidente palestinese ha scelto di ricorrere allo scioglimento del Consiglio legislativo palestinese e ad elezioni anticipate sia per il Consiglio che per la presidenza dell’Anp, ma è perlomeno dubbio che abbia il potere ed i mezzi per farlo.

È dubbio, se egli abbia assunto questa posizione per esercitare una estrema pressione su Hamas, per superare le ultime resistenze all’accordo per la formazione del governo di unità nazionale, o se essa esprima la scelta irrevocabile di un confronto finale. È probabile che Abu Mazen voglia conservare in mano entrambe le opzioni, a seconda dell’evolversi della situazione.

A favore dello show down premono diversi attori: la cerchia dei suoi consiglieri anziani, che considerano in sostanza quelli di Hamas degli usurpatori di un potere che deve al più presto ritornare nelle mani di Al Fatah; gli israeliani, che si sono tenuti inchiodati alle tre condizioni poste dal Quartetto al Governo Haniyeh (riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza, riconoscimento dei trattati pregressi), e hanno contestualmente bloccato il pagamento delle tasse doganali percepite per conto dei palestinesi, cercando così di strangolare economicamente l’ANP; e soprattutto gli Stati Uniti (cui ora si è accodato Blair con la sua recente missione), che sono intervenuti per tre volte a bloccare gli accordi raggiunti tra Al Fatah e Hamas, e che si basavano sul Piano Arabo dl 2002 e sul “Documento dei prigionieri”. Piani che prevedevano un riconoscimento indiretto o potenziale di Israele, ed il blocco delle attività terroristiche dentro Israele. Gli Stati Uniti hanno fatto presente ad Abu Mazen che quella piattaforma era insufficiente perché il nuovo Governo ottenesse il riconoscimento e lo sblocco dei finanziamenti internazionali, e questo è bastato perché il Presidente dell’Anp tornasse a richiamarsi strettamente alle tre condizioni, facendo naufragare il negoziato.

Lo scenario a cui punta questo “asse dello scontro”, per contrastare “l’asse del male”, entro cui è collocato Hamas, è che tra stato d’emergenza e governi che non ottengano la fiducia del Consiglio legislativo, controllato da Hamas, passino cinque o sei mesi; e che entro questo periodo ad Abu Mazen arrivino soldi, soldati ed armi, e alcune aperture da Israele (rilascio dei prigionieri, incontro con Olmert etc.), che lo mettano in grado di presentarsi vantaggiosamente alle elezioni.

Uno scenario tutt’altro che scontato. Il rischio, come sottolinea anche oggi l’Herald Tribune, è che tra sei mesi ci troviamo non solo con il Consiglio legislativo, ma anche con il Presidente dell’Anp espressi da Hamas.

D’Alema, quindi, farebbe bene ad assumersi le responsabilità che il momento richiede, dicendo (ancora più chiaramente di quanto abbia fatto il Consiglio Europeo) che, a suo parere, un governo di unità nazionale che si basi sulla piattaforma in otto punti prevista dai precedenti accordi dell’11 settembre potrebbe incontrare la approvazione dell’Italia e che la stessa Europa, e in prospettiva lo stesso Quartetto, potrebbe considerarlo un passo significativo in direzione delle tre condizioni, consentendo così di sbloccare gli aiuti. Forse è tardi per evitare di infilarsi nell’ennesimo vicolo cieco mediorientale, ma almeno bisogna provarci.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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