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L’Analisi

Dal profondo della Turchia

di Valeria Giannotta

Data pubblicazione: 1 settembre 2016

“Pace a casa e pace nel mondo” questo è il motto su cui è stata fondata la moderna Repubblica di Turchia e oggi a circa due mesi dal tentato colpo di Stato il suo valore non fa che rafforzarsi. Quasi al 45mo giorno dal proclamato Stato di Emergenza è opportuno tirare le somme di quanto è avvenuto e sta succedendo nella Turchia di Erdogan e del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP). L’Erdogancentrismo è tuttavia una categoria analitica riduttiva. Per non cadere nella trappola di assiomi obsoleti numerosi sono gli elementi da considerare, e spaziano dallo spaccato sociale alle fratture interne all’evoluzione socio-politica in atto. La frattura “militari- islam” risulta perciò anacronista. Se, grazie ad un’idea di controllo e contenimento politico imposto dall’alto i primi sono stati tradizionalmente legittimati anche a livello costituzionale a intervenire ogni qualvolta l’ordine precostitutito – basato su assunti Kemalisti – fosse minacciato, con l’ascesa al potere del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), si è assistito a una nuova idea di legittimazione politica bottom-up. Il ribilanciamento dei rapporti civili-militari e lo sdoganamento delle istanze sociali e religiose sono la vera forza della Yeni Türkiye (Nuova Turchia). E questo spiega l’attuale blocco compatto della società contro l’interferenza militare, elemento raro e di novità nei 15 anni monocolore AKP, che ha avuto la sua massima espressione nel rally politico del 24 luglio scorso quando i leader del partito di maggioranza e del primo partito di opposizione CHP (Partito Repubblicano del Popolo) si sono mostrati uniti a sostegno del potere legittimamente costituito.

Ovviamente da tali risvolti non discende il “trionfo dell’islam” o l’’islamizzazione della società o una “ferrea dittatura”, ma il consolidamento del consenso e il rafforzamento del partito al governo, oggi in una posizione predominante in un sistema senza efficaci checks and balance. Le attuali dinamiche sono infatti l’esito di un trend iniziato ormai nel 2002 quando l’AKP ha fatto capolino sulla scena politica con uno spiccato spirito riformatore- anche in chiave europea- che ha portato nel 2005 all’avvio dei negoziati con la UE. Dal 2007 in poi molte sono state le questioni cruciali interne: il continuo braccio di forza con il blocco kemalista e il successivo avvio dei processi Ergenekon e Balyoz, il referendum interno del 2010 e la relativa ristrutturazione di alcuni organi di stato hanno avviato l’AKP in una posizione sempre più dominante all’interno dello spettro politico turco. Poi il 2013 con Gezı Park e la rottura con la controparte gülenista ha rappresentato la vera svolta, scalfendo da un lato l’immagine pubblica di Erdogan, dall’altro producendo crescita di consenso e quindi potere.

İl recente colpo fallito è il culmine di una lotta di potere intestina, che si appalesa proprio nel 2013 e vede come principale indiziato il movimento Gülen, il cui leader -imam Fetullah dagli anni 90 è in autoesilio in Pensilvanya. Per anni le corporazioni guleniste hanno svolto un ruolo ampiamente legittimato dal governo AKP, infiltrando ogni settore pubblico e privato e contribuendo allo sviluppo e alla crescita economica del Paese oltre che all’addestramento di personale da impiegare nella burocrazia di stato. Purtroppo però, come tutti i matrimoni di convenienza anche questo era destinato a fallire ed è naufragato nei peggiore dei modi. Dagli scandali del 17 dicembre 2013 (da me già definito “golpe burocratico”), che han visto coinvolti ministri e importanti personaggi politici – tra cui anche il figlio dell’attuale Presidente – le tensioni tra le due fazioni sono aumentate. Il 15 luglio marca dunque l’ultima prova di forza e la definita sconfitta dei dissidenti legati all’organizzazione FETO.

E’ qui d’obbligo sottolineare che l’immagine benevola di cui Fetullah Gulen gode all’estero, specialmente negli USA, e la percezione comune in Turchia sono completamente rovesciate. I gulenisti sono qui considerati come una sorta di gang che nel tempo ha infiltrato gli apparati di Stato, eliminando gli oppositori con metodi repressivi, minacciando e addirittura manipolando prove. Le epurazioni in corso mirano dunque ad estirpare queste componenti e le reti di solidarietà che nel tempo hanno saputo stabilire. In questo quadro la vera grande sfida di Erdogan è quella di saper colmare i vuoti all’interno della macchina burocratica, e riconciliare le differenze all’interno della società. La Turchia è infatti già affetta da una seria polarizzazione che si erge su più assi: religione-laicità; Stato unitario-separatismo; governo e suoi avversari senza contare le minacce poste dal terrorismo islamico che non è nuovo ad attacchi sul suolo turco, da ultimo quello di Gaziantep del 20 agosto scorso. In un certo senso tali dinamiche sono l’effetto di spill-over del critico contesto regionale dove la partita siriana pone condizioni non trascurabili. Il nuovo attivismo di Ankara oltreconfine e’ da leggersi come risposta alle minacce terroriste poste sia da DAESH che da PYD, considerata la costola siriana del PKK e quindi nemico da contenere.

Inoltre, data la sua collocazione geografica la Turchia ha una peculiare multi dimensionalità da considerare: la pace fatta con la Russia, contemporanea a quella con Israele marca un chiaro ritorno alla real politik. Negli ultimi tempi Ankara, infatti, è quasi totalmente isolata nello scacchiere regionale e internazionale. Dalla strategia di “Zero problemi con i vicini” si era approdati a una sorta di “prezioso isolamento” che non ha portato benefici, ma ha aumentato i problemi. Gli interessi che la legano a Mosca sono economici – e spaziano dal turismo all’energia – oltre che politici e strategici. In Siria, Ankara e Mosca hanno combattuto il comune nemico ISIS da diverse angolazioni e erano contrapposti sulla dipartita di Assad. Oggi si ha la sensazione che entrambe le parti si siano ammorbidite sulla questione: per Putin è di vitale importanza il mantenimento delle basi strategiche mentre per Ankara è imperativo evitare un effetto di spill-over interno. Il dato storico è rilevante: il tutto avviene in un momento in cui le relazioni con gli USA non sono al massimo sia per le questioni interne legate all’estradizione di Gulen sia per la divergente percezione della componente armata curda oltre confine. Ciò nonostante la Turchia rimane un valido alleato dell’Occidente oltre che interlocutore chiave per il contenimento delle minacce. È allora opportuno il richiamo ad Ataturk, fondatore della patria: “lavoriamo per la pace a casa e per la pace nel mondo”.

NOTE SULL'AUTORE 

Valeria Giannotta

Dopo gli studi in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali a Milano, nel 2009 Valeria Giannotta si trasferisce in Turchia per completare il dottorato sul partito Akp. Docente universitaria a Istanbul, Gaziantep ed Ankara, oggi è un’affermata esperta di dinamiche turche. Per la sua obiettività di analisi nel 2017 è stata insignita dell’onorificenza Cavaliere di Italia dalla Presidenza della Repubblica italiana. 

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