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L’Analisi

Iran – USA, lavori in corso

di Alberto Negri

Data pubblicazione: 3 ottobre 2013

Una storia può cominciare con una telefonata ma una telefonata non può da sola cambiare la Storia. Il quarto d’ora di colloquio tra Obama e Rohani, che ha rotto il giacchio dopo 34 anni di silenzio, è stato percepito in Iran non come il riconoscimento di un regime ma di un popolo intero, di una nazione che rifiuta l’isolamento. Ma ci vuole ben altro per fare la pace tra Iran e Stati Uniti: una buona dose di realpolitik e di reciproca fiducia dopo decenni di insanabile diffidenza.

In Iran a non fidarsi degli Stati Uniti non sono soltanto i Pasdaran, che contestano l’apertura di Rohani, ma anche la borghesia che ha una certa memoria del passato, antico e recente. Chi appartiene all’ala democratica si ricorda del colpo di stato contro Mossadeq che la Cia ha ammesso recentemente di avere architettato, altri puntano il dito contro Carter che abbandonò lo Shah al suo destino dopo avere brindato insieme a Capodanno.
La maggioranza guarda ai disastri combinati in questi anni dagli americani in Iraq, in Afghanistan, in Libia e alle dinamiche controverse delle primavere arabe: per non parlare della Siria, dove Washington si è di nuovo fatta impigliare dagli alleati sunniti in una guerra civile che vede prevalere sul campo i movimenti legati ad Al Qaeda e al jihadismo internazionale.

Gli Stati Uniti quando mettono le mani in Medio Oriente fanno danni talora irrimediabili e l’Iran non ha nessuna voglia di finire nella lista degli stati falliti o semi-falliti della regione.

In Iran c’è già stata una sanguinosa rivoluzione nel 1979, seguita da un’ancora più sanguinosa guerra contro l’Iraq, sostenuto allora dall’Occidente e dalle monarchie arabe degl Golfo: se fossi un iraniano, anche se oppositore del regime, sarei giustamente diffidente nei confronti delle amministrazioni americane. Inoltre queste si sono ben guardate da fare mosse concrete quando negli anni’90 il presidente Mohammed Khatami tese la mano a Washington: nel 2009, l’anno dell’Onda Verde, i consiglieri di Obama puntavano sulla rielezione di Ahmadinejad, non sull’opposizione.
La cosa migliore che possono fare gli Stati Uniti, agli occhi degli iraniani, è tenere fermo il dito sul grilletto degli israeliani e togliere un po’ di sanzioni che colpiscono il regime ma anche la popolazione. Al Congresso invece, pur lasciando un certo credito a Obama nella sua apertura all’Iran, stanno meditando di imporre altre sanzioni.
Gli americani coltivano in Medio Oriente pericolose illusioni, sia che facciano la guerra sia che imbocchino la strada diplomatica. Lo scrive chiaramente in questi giorni sul New York Times il professor Vali Nasr: “Per l’America sarebbe ingenuo pensare che l’Iran stia negoziando da una posizione di debolezza”. Al contrario, l’Iran è uscito dalla primavera araba in una posizione migliore rispetto ai suoi rivali regionali e la crisi siriana lo ha paradossalmente rafforzato, dimostrando che è uno dei pochi stati della regione capace di fare la guerra fuori dai suoi confini.
Certamente le sanzioni hanno pesato sull’Iran. L’economia è in cattive acque, l’export di petrolio si è dimezzato, la disoccupazione giovanile sempre più alta, l’inflazione al 60%: tutti fattori che hanno contribuito a convincere la Guida Suprema Ali Khamenei che Hassan Rohani, ex negoziatore sul nucleare, è l’interlocutore giusto con l’Occidente.

Ma l’Iran non si vede come un Paese vinto. Il suo sistema politico è ancora il più saldo nella regione e le ultime elezioni si sono svolte regolarmente, senza proteste, mentre a Istanbul e al Cairo le piazze si incendiavano.

La speranza che la Turchia e gli alleati arabi dell’America avrebbero formato un’alleanza per isolare l’Iran non si è avverata. Anzi, questi alleati degli Stati Uniti sono sempre più divisi su cosa fare in Egitto e in Siria. La Turchia di Erdogan, poi, si sta coprendo di ridicolo: nella primavera del 2011 pensava di abbattere Assad in pochi mesi e ora sul fronte meridionale confina con Al Qaeda e si ritrova con un altro problema curdo, ancora più allargato di prima. La maggior parte di turchi è contro la politica del governo in Siria e il nuovo pacchetto di riforme democratiche di Erdogan è assai poco convicente: ai laici appare “una modernizzazione con il velo”.

Alla vigilia della ripresa dei colloqui sul nucleare l’Iran non è affatto pronto ad arrendersi. Per avere successo il negoziato dunque non può essere basato sulle minacce e le sanzioni ma sul compromesso e la persuasione.

 

Analisi scritta per il CIPMO da Alberto Negri, inviato speciale de Il Sole 24-Ore

NOTE SULL'AUTORE 

Alberto Negri

Alberto Negri è stato inviato speciale per "Il Sole 24 Ore" per il Medio Oriente, l'Africa, l'Asia centrale e i Balcani dal 1987 al 2017. Come corrispondente speciale, ha coperto la maggior parte dei principali eventi politici e di guerra degli ultimi 30 anni, dalla guerra Iran-Iraq all'Afghanistan (1994-2001-2015), dalle guerre dei Balcani a Sarajevo, Kosovo, Croazia, Serbia, a Baghdad 2003, dall'Algeria 1991 alla Siria 2011-2016, dalla Tunisia 2011 al Cairo e Tripoli 2015, la Turchia per 25 anni. In Africa ha coperto il Sudafrica, il Mozambico, l'Eritrea, l'Etiopia, la Somalia, il Kenya, il Senegal, il Mali, la Mauritania, il Marocco. Nel 2007 ha vinto un premio nazionale come reporter di guerra, nel 2009 ha vinto il premio giornalistico internazionale "Maria Grazia Cutuli", nel 2015 il premio "Colombe per la pace". È autore di saggi e libri. Il suo ultimo libro "Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente" è stato premiato con il Premio Capalbio.

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