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L’Analisi

Quale Turchia dopo le elezioni

di Carlo Marsili

Data pubblicazione: 21 giugno 2011

Mentre in vari paesi del Medio Oriente e del Nord Africa si continua a sparare e il Mediterraneo resta un’area di turbolenza, l’87% degli elettori turchi si è recato tranquillamente a votare il 12 giugno dopo una campagna elettorale certamente molto aspra ma sempre civilmente dibattuta. Come era nelle previsioni, la vittoria è stata conseguita dall’AKP del Primo Ministro Erdogan, che ha conquistato la metà esatta dei voti popolari (49.9%), e per la terza legislatura consecutiva sarà in grado di formare un governo monocolore. L’incremento del 3% rispetto alle precedenti elezioni del 2007 denota non soltanto il desiderio di stabilità dell’elettorato ma anche un’accentuata soddisfazione per l’operato del Governo. Comprensibile, perché esso si è potuto presentare come l’artefice di una crescita economica che dura da molti anni e che per certi aspetti ha dello straordinario. Un’occhiata al Paese ci mostra un’impressionante attività nel settore commerciale, nuove strade a doppia corsia, intere periferie ricostruite con criteri moderni ed edifici dignitosi, ferrovie ad alta velocità in fase avanzata, ospedali modernissimi. Se tutto ciò lo si confronti con la stagnazione che più o meno affligge il resto d’Europa, il quadro della modernizzazione turca appare ancora più significativo. Molti elettori moderati, finora titubanti verso l’AKP per timore delle sue radici religiose hanno quindi concluso che il rischio dell’islamizzazione del Paese non è così incombente. Certo, l’AKP resta un partito dove la religione svolge un ruolo consistente, basta sentire un comizio di Erdogan per rendersene conto, compreso quello “dal balcone” per ringraziare i suoi elettori a conclusione dello spoglio dei voti, ma evidentemente ciò sta bene alla Turchia profonda delle province anatoliche dove l’AKP ha raccolto percentuali “bulgare”. Senza contare che un certo incremento dei voti ha avuto luogo anche nelle province della costa egea e mediterranea, da sempre laiche e ostili all’uso politico della religione. Quindi un ritrovato orgoglio per il successo economico e anche di politica estera di questa Turchia, che ha fatto passare in secondo piano le innegabili tendenze autoritarie del capo del Governo, la sua scarsa tolleranza alle critiche, le difficoltà che ancora incontra la stampa ad esprimersi liberamente, i troppi giornalisti in carcere per accuse ancora da provare.

Va peraltro osservato che AKP ha vinto ma non stravinto: in altri termini non ha conseguito quella che rappresentava la sua aspirazione profonda e cioè ottenere in Parlamento un numero di seggi tali da consentirgli di adottare da solo le riforme costituzionali. Anzi, in conseguenza della legge elettorale che prevede lo sbarramento al 10% per entrarvi, esso ha perso 14 seggi rispetto alla precedente legislatura: e i 326 (su 550) che ha conquistato lo obbligheranno a cercare con l’Opposizione un consenso più vasto per modificare la costituzione (ne occorrono 367 per procedervi direttamente o almeno 330 salvo referendum popolare confermativo). Tra l’altro l’ambizione di Erdogan di trasformare la Turchia in repubblica presidenziale e succedere quindi un giorno a Gul con poteri più forti rischia di arenarsi. Ma che per riformare la costituzione, che certamente va riformata trattandosi ancora essenzialmente di quella emanata dai militari dopo il colpo di stato del 1980, sia opportuno coinvolgere l’Opposizione e la società civile è un’ovvia considerazione di democrazia che bene hanno fatto gli elettori a sancire con il voto. E a conti fatti è meglio che la Turchia resti una repubblica parlamentare, sia pure con una prospettiva “alla Putin” (scambio dei posti tra Erdogan e Gul nel 2014 alla scadenza del mandato di quest’ultimo).

Il Partito Repubblicano del Popolo (CHP) di ispirazione kemalista, laico, aderente all’Internazionale Socialista, è passato dal 20,9 al 25,9% dei voti, incrementando i seggi in Parlamento di 23 rispetto alla precedente legislatura e ottenendone quindi 135. Il suo nuovo leader, Kemal Kilicdaroglu, è però già oggetto di malumori interni. L’elettorato di centro-sinistra è rimasto deluso, si attendeva un successo maggiore che avvicinasse almeno il partito all’obiettivo del 30%, dopo tutti gli sforzi per allargare i suoi orizzonti oltre il tradizionale consenso delle élite urbane, dei militari e degli ambienti rigidamente secolari. Ma forse la nuova leadership si è installata da troppo poco tempo, senza contare che certamente un certo numero di tradizionali elettori del CHP ha votato per il partito del movimento nazionale (MHP) nel timore che, anche a fronte dei recenti scandaletti rosa non ce la facesse a superare la soglia del 10% con la conseguenza di una moltiplicazione dei seggi a favore del partito di Erdogan. Il quale MHP ce l’ha fatta, sia pure di misura abbastanza stretta, ottenendo il 13% dei voti (-1,3) e 54 seggi (-17). Sostituito ormai da tempo il doppiopetto all’etichetta dei lupi grigi, l’MHP di Devlet Bahceli resta collocato sull’estrema destra ma la sua avversione ad Erdogan lo rende alleato naturale del CHP.

L’altro vincitore emerso da queste elezioni è il Partito della Pace e della Democrazia (BDP). Con il 6,6% dei voti non sarebbe potuto entrare in Parlamento ma l’ostacolo della legge elettorale è stato come al solito aggirato presentando candidati indipendenti automaticamente eletti nel caso ottenessero almeno il 50% dei voti nei rispettivi collegi elettorali. In tal modo sono stati eletti ben 35 parlamentari (8 in più del passato) di etnia curda che potrebbero risultare determinanti, o comunque avere una voce significativa, nel processo di riforma costituzionale. Tra essi 11 donne, che aggiunte alle altre 67 neo-elette portano il numero complessivo a 78, trenta in più della precedente legislatura. Un numero significativo anche se ancora insoddisfacente.

Cosa c’è da aspettarsi? Certamente una Turchia politicamente stabile per altri cinque anni e con un’economia in crescita (non a caso gli ambienti economici hanno reagito positivamente all’esito del voto), sia pure con inevitabili raffreddamenti per assicurarne la sostenibilità. La riforma fiscale, la lotta al sommerso e un minore ricorso all’imposizione indiretta ne saranno inevitabilmente i tratti salienti. La politica estera resterà assertiva ma improntata al dialogo e alla mediazione, compatibilmente con gli sviluppi medio-orientali, in particolare per quanto riguarda la Siria e il processo israelo-palestinese. Gli eventi in Siria hanno spinto Erdogan ad assumere una posizione rigida nei confronti di Assad e ciò potrebbe ripercuotersi anche sui rapporti con Teheran. Il dialogo con Gerusalemme resterà difficile ma secondo Erdogan spetta a quest’ultima fare il primo passo con le scuse e la compensazione per i fatti della Freedom Flotilla: ma una qualche schiarita è nella logica delle cose. I militari dovranno accettare un maggiore controllo politico che si accompagnerà inevitabilmente ad un maggior conservatorismo e ad una relativa islamizzazione strisciante almeno nelle province interne dell’Anatolia, dove peraltro è già in atto. Sarà quindi essenziale preservare il carattere laico della costituzione, opportunamente sancito nel preambolo e nei primi articoli immodificabili. Il negoziato europeo, grande assente della campagna elettorale, resterà comunque una priorità del Governo e starà ai partner europei coglierne l’opportunità per evitare che il tema di Cipro o i ripensamenti di certe cancellerie europee continuino a bloccare la naturale adesione di un Paese come la Turchia, che ancora una volta ha dimostrato di essere una democrazia compatibile con i nostri valori.

NOTE SULL'AUTORE 

Carlo Marsili

Primo Vice Console a Monaco (1973-1975), Primo Segretario a Bangkok (1975-1978), Consigliere politico ad Ankara (1979-1981), Console Generale per la Scozia e Irlanda del Nord a Edimburgo (1984- 1988), vice consigliere diplomatico del primo ministro (1988-1993) e vice capo della missione in Germania (1993-1998). Successivamente Ambasciatore in Indonesia nel 1998, dal 2004 al 2010 è stato Ambasciatore in Turchia.

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