Home ≫ ANALISI

L’Analisi

La strada per piazza Tahrir

di Paola Caridi

Data pubblicazione: 3 febbraio 2011

L’unica cosa certa, nella battaglia di mercoledì per il controllo di piazza Tahrir, è che nessuno potrà più dire che Mubarak non è un dittatore, e che il regime non è un regime. Non solo perché giornalisti rispettabili, di Al Jazeera ma della CNN e del New York Times, hanno mostrato come la manifestazione filo-Mubarak da cui poi è partito l’attacco alla protesta pacifica contro il regime fosse “orchestrata”. “Una folla in affitto”, l’ha definita Jamie Rubin, ex sottosegretario dell’amministrazione Clinton. Ne facevano parte i poliziotti, e gli agenti in borghesi, purtroppo noti agli egiziani come beltagi. E poi quella tipica folla di uomini che era possibile vedere nelle manifestazioni che di tanto in tanto il regime organizzava, soprattutto nei momenti importanti, quando bisognava dimostrare che la presidenza e il potere gestito dal partito dei Mubarak, lo NDP, avevano il sostegno della gente. Della gente povera, che veniva pagata pochi euro per partecipare.

A decretare che Mubarak è stato un dittatore e il regime un vero regime è anche questa triste fine di commedia. Un uomo di 82 anni non vuole lasciare la presidenza, dopo trent’anni di potere gestito attraverso un sistema di consenso clientelare, di sostegno da parte di certi settori della grande imprenditoria che si sono poi mescolati alla politica, di corruzione, di gestione delle risorse a pioggia per calmierare la povertà. Il regime si è sostenuto attraverso la gestione del conformismo musulmano fatta da Al Azhar, su cui la presidenza ha sempre esercitato la sua influenza diretta dai tempi di Gamal Abdel Nasser. Così come si è sostenuto su di una masquerade democratica rappresentata da un sistema parlamentare in cui il partito al potere, lo NDP, era l’unico partito di massa rappresentato, e l’opposizione era fatta dai partitini che lo stesso regime aveva accettato di far partecipare alle consultazioni. Per gli altri, per quelli che realmente avevano seguito, nessuna licenza di essere un partito legale. E le elezioni, poi, ogni volta di più, segnate dai brogli. Da quelle del 2005 a quelle del 2010, talmente scandalose da costringere, ora, sotto la spinta dei milioni di egiziani per strada, il parlamento appena eletto a mettere in forse le stesse consultazioni su cui i giudici avevano già espresso le loro riserve. Per non parlare dello stato d’emergenza, rinnovato di anno in anno 29 volte, per 29 anni. E infine il rinnovo di Hosni Mubarak alla presidenza, di volta in volta, senza candidati credibili a contrastarlo, sino agli emendamenti costituzionali voluti dal Rais e sanzionati da un referendum farsa nel 2007.

La storia del regime di Mubarak nasce da lontano, e cresce all’ombra di un’alleanza talmente tetragona con le varie amministrazioni americane, per la stabilità della regione, da rendere cieche le cancellerie sui cambiamenti – importanti – di una intera società. E anche sullo strano cocktail che la battaglia di piazza Tahrir di mercoledì ha mostrato con tutta evidenza: una società che, da una parte, ha visto la crescita di generazioni di ragazzi civili, pacifici, istruiti, desiderosi di credere in un futuro possibile e dignitoso, e, dall’altra, l’involuzione di un’umanità dolente, segnata da una povertà sempre meno dignitosa, usata dal regime, e disposta a fare da massa di manovra senza più la forza del riscatto morale.

La storia della rivoluzione egiziana del 2011 è tutta in questo mix di democra-tura, autocrazia, paternalismo, e spinte ineludibili verso una democrazia compiuta. Se questo ha sorpreso molti, non vuol dire che non avesse radici profonde. Al contrario, dovrebbe costringere chi non ha visto a riflettere su analisi frettolose, quando in buonafede, oppure volutamente distorte per continuare un comodo tran tran, una confortevole (ma solo per noi Occidente) gestione a distanza di una regione difficile.

La vera domanda è se questa miopia non riuscirà per l’ennesima volta a influenzare un paese piegato, dolorante, eppure tanto orgoglioso da far sentire la propria voglia di libertà e, con la stessa forza, di dignità. Se, cioè, la miopia riuscirà a rendere l’Egitto ancora una volta solo parzialmente libero di esprimere la propria democrazia, declinata all’egiziana, e composta da tutte le sue anime. La nostra miopia ha già costretto l’Egitto sotto il tallone di un regime che si è retto su di uno stato d’emergenza, ed è anche parzialmente responsabile del disastro. Vogliamo anche dare lezioni per il futuro? Sarebbe il caso, per la nostra residua dignità e per la loro libertà, di astenerci. E farli vivere come vogliono.

NOTE SULL'AUTORE 

Paola Caridi

Socia fondatrice di Lettera 22 e responsabile del sito http://invisiblearabs.com/

Leggi tutte le ANALISI