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L’Analisi

Iran, quale futuro per la società civile?

di Farian Sabahi

Data pubblicazione:15 maggio 2007

In questi ventotto anni di Repubblica islamica, molti intellettuali iraniani hanno lavorato tranquilli, nella certezza di avere stretto un patto con il diavolo: hanno rispettato le regole imposte dal regime, non si sono azzardati a criticarlo e si sono dedicati all’arte senza sconfinare nella politica. Un po’ come accadeva in Unione Sovietica, dove gli artisti si allineavano in cambio di un margine di manovra limitato e soprattutto con la speranza di non finire in carcere. La linea rossa, quella al di là della quale si rischia il carcere, in Iran c’è sempre stata. Ovviamente anche al tempo dello scià che puniva i dissidenti facendoli torturare dalla terribile polizia segreta, la Savak. Nella Repubblica islamica questa linea rossa non è ben delineata: si sposta insieme all’umore della magistratura e di chi la controlla. Per la società civile è quindi sempre stato difficile capire che cosa è lecito e che cosa è invece pericoloso.

Dopo l’elezione del presidente Ahmadinejad nel giugno di due anni fa, la società civile si è sentita in pericolo più che mai. Non che con Khatami fosse al sicuro, perché dopotutto a finire in carcere durante i suoi due mandati erano stati anche esponenti del clero sciita riformatore come l’hojatoleslam Mohsen Kadivar e il suo collega Youssuf Eshkevari. Ed era stata uccisa la fotografa irano-canadese Zahra Kazemi. Secondo uno studente di Teheran che ho incontrato recentemente, l’elezione del riformatore Khatami ha fatto cadere i moderati in una trappola: si sono sbilanciati, hanno fatto dichiarazioni contro il velayat-e faqih (governo del clero) e si sono quindi resi riconoscibili. Che Khatami sia stato consapevole della trappola, che fosse in buona fede o meno, poco importa. Il risultato è lo stesso: la società civile iraniana ha subito un duro colpo.

La differenza rispetto alla presidenza Khatami è che ora la magistratura prende di mira anche, e soprattutto, coloro che, tra gli intellettuali, tessono ponti tra culture. Era successo, l’anno scorso, con il filosofo Ramin Jahanbegloo. E ora con la studiosa Haleh Esfandiari, direttrice del programma sul Medio Oriente al Woodrow Wilson International Center for Scholars, un centro di ricerca che ha sede a Washington ed è finanziato con fondi pubblici e privati. Nata in Iran, Esfandiari è stata arrestata l’8 maggio a Teheran: era andata a trovare la madre anziana a dicembre, il passaporto le era stato confiscato e, anziché trascorrere in Iran soltanto le vacanze di Natale, è rimasta bloccata. La scorsa settimana è stata arrestata e ancora non si sa di cosa sia ritenuta colpevole.

L’arresto di Haleh Esfandiari non è un caso isolato. Dieci giorni fa Hossein Mousavian è stato accusato di spionaggio a favore della Germania dove era stato ambasciatore. Dopodiché aveva conseguito un dottorato di ricerca alla London School of Economics di Londra e durante lapresidenza di Khatami era diventato uno dei negoziatori sul nucleare. Vicino al potente e pragmatico Rafsanjani, l’eminenza grigia dietro le quinte, Mousavian è quindi vittima dei conflitti interni alla Repubblica islamica. Dopo Mousavian, è stato il turno del fumettista Nureddin Zarrinkelk. Professore di belle arti, una settimana fa si è giocato la carriera: ha chiesto agli studenti in aula di disegnare degli angeli, uno di loro li ha ritratti calvi e una ragazza ha difeso questa decisione. A quel punto Zarrinkelk, che ha settant’anni, le ha chiesto se anche lei era calva e portava il chador per nasconderlo. Per provocarla il docente l’ha toccata facendole uscire una ciocca di capelli. Accusato di avere insultato il velo, è
stato licenziato.

Non sono soltanto i politici del fronte riformatore e i docenti all’opposizione a temere la nuova rivoluzione culturale messa in atto da Ahmadinejad. È tutta la società civile a esserne coinvolta. L’estate scorsa, e quindi a un anno dall’insediamento del nuovo presidente, la ricercatrice Soheila Tahmasebifar mi raccontava che le organizzazioni non governative non avevano ricevuto i finanziamenti stanziati dal governo di Khatami e all’inizio di agosto le autorità avevano obbligato l’associazione guidata da Shirin Ebadi a chiudere i battenti. Quarantacinque anni, Soheila è laureata in scienze politiche e si è specializzata nel ruolo delle donne nella società civile. Fa ricerca, come indipendente, sulla partecipazione femminile nelle giunte comunali, scrivendo articoli per il mensile dei consigli municipali «Mahnameh shoraha» e il femminile «Zanan» diretto da Shahla Sherkat. Ma  Ahmadinejad ritiene che le donne debbano avere un ruolo solo nell’ambito familiare e, per questo, ha bloccato i finanziamenti.

Oltre a fare ricerca su questi temi, Soheila ha fondato l’ong iraniana Irwi (Independent Researchers on Women’s Issues), una delle tante attive nel paese. Secondo le statistiche del ministero degli Interni prima del 1997, anno dell’elezione di Khatami, le ong erano cinquantatré. Con il presidente riformatore, queste istituzioni della società civile sono diventate trecentosettacinque, cui occorre aggiungerne circa un migliaio non registrate presso il ministero. Il problema, spiega Soheila, «è che in Iran non esiste una legge che ratifica e protegge le attività delle ong. E proprio per questo motivo Ahmadinejad sta cercando di controllare, attraverso il ministero degli Interni, tutte le istituzioni della società civile che ogni sei mesi devono consegnare un rapporto sulle attività svolte. Le ong hanno protestato perché il governo non ha alcun diritto di controllarle. Abbiamo presentato un reclamo e organizzato una manifestazione, e alla fine il progetto del presidente è stato interrotto. Nel frattempo sono stati però tagliati i finanziamenti a tutte le organizzazioni, a eccezione di quelle governative e a carattere religioso».

Quale futuro può esserci per il movimento riformista finché resta in carica il presidente Ahmadinejad? In occasione di un recentissimo incontro a Milano, il moderato Khatami ha risposto che «nonostante i problemi recenti, le riforme non dipendono da un individuo in particolare. Sono cent’anni che gli iraniani cercano di riformare il loro Paese e finché esiste l’Iran ci sarà anche il movimento riformista. Ci sarà un futuro migliore solo se disarmiamo i violenti». E ha precisato che «la religione può liberare dall’oppressione». La separazione tra Stato e Chiesa non è però, secondo Khatami, un passo obbligato: «Abbiamo tanta strada da fare, meglio porre l’accento sulla democrazia. La religione deve moralizzare la politica perché i politici rincorrono il potere. Il richiamo dei Profeti è un richiamo alla giustizia e, come affermava il maestro Motahhari, essa è tra i valori più alti. E quindi tutto quello che non è giusto non è religioso. Una religione che si oppone alla libertà, anziché alla povertà e alle discriminazioni, non è una vera religione».

«Nel quadro giuridico offerto dalla nostra costituzione dobbiamo promuovere il valore delle donne, mettendole in condizione di dimostrare il loro talento e accettare responsabilità sociali e quindi anche incarichi di prestigio, pure in politica», continua Khatami ribadendo uno dei cavalli di battaglia che gli è valsa l’elezione in due mandati successivi, in occasione dei quali a votarlo erano stati soprattutto le donne e i giovani. «La nostra cultura deve recepire la democrazia, che non si può imporre con una circolare ministeriale. Ci vuole tempo e dopotutto l’Occidente ha impiegato secoli e vissuto massacri prima di far propria la democrazia». Da cosa è causato il ritardo dell’Iran? «Il parlamento iraniano ha oltre cent’anni ma il nostro sistema politico ha partorito i peggiori tiranni. E non dobbiamo vergognarci di ricordare ai Paesi occidentali le fasi storiche in cui hanno esercitato la loro ingerenza nei nostri confronti e che oggi il terrorismo nasce dalla guerra preventiva scatenata dagli americani». Il riferimento di Khatami al terrorismo internazionale è opportuno: la guerra al terrore scatenata dagli USA e dai loro alleati offre ai regimi del Medio Oriente, e non solo all’Iran, il pretesto per schiacciare l’opposizione. In nome della sicurezza nazionale scrittori, giornalisti, professori universitari, attivisti, avvocati e studenti finiscono in manette. Succede tutti i giorni. In Iran ma pure in Siria, in Egitto, in Marocco e in Tunisia. Forse sarebbe opportuno che la comunità internazionale facesse meno discorsi di geopolitica e badasse un po’ di più alla tutela dei diritti delle persone. Mettendoli sui tavoli dei negoziati in cui si discute di grandi questioni politiche, energetiche e commerciali. Dimenticando, o trascurando, i cittadini di quei paesi.

NOTE SULL'AUTORE 

Farian Sabahi

Editorialista del quotidiano La Stampa, insegna "Islam e democrazia" presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Torino.

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