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L’Analisi

La sconfitta di Fatah porta la firma di Israele

di Ugo Tramballi

Data pubblicazione:1 marzo 2006

Sono evidentemente molte le cause che hanno portato alla vittoria di Hamas: una vittoria che non è nata durante la campagna elettorale ma molto tempo fa. Le colpe di Fatah sono scritte sui muri; l’immaturità politica o l’assenza di realismo che potremmo dire storica dei palestinesi, sono altri validi elementi di dibattito; ed è innegabile che dal Gran Muftì di Gerusalemme Hajj Amin al-Husseini ad Arafat, siano sempre mancati al popolo palestinese leaders coraggiosi ed equilibrati: quei capi capaci d’imporre alla loro gente il compromesso dal quale nascono le nazioni. Qui, tuttavia, vorrei soffermarmi su responsabilità delle quali non si è molto parlato sulla stampa internazionale in queste settimane. Se non giusto di passaggio. Mi riferisco alle responsabilità di Israele che di questo nuovo dramma palestinese non è un semplice e lontano osservatore. La scelta del tema è impopolare in questa epoca di scontro di civiltà: per i molti sostenitori del confronto muscoloso fra la nostra cultura giudaico-cristiana e quella islamica, il solo chiedersi se la nostra parte possa avere responsabilità, è blasfemia. E del resto sarebbe difficile pretendere un comportamento così analitico e distaccato dagli israeliani che hanno conosciuto il terrorismo di Hamas nelle loro strade, sui loro autobus, nei loro ristoranti, davanti alle sinagoghe e ai mercati. Il primo errore israeliano fu Oslo.

E’ vero che il nocciolo del processo di pace era la restituzione israeliana di terra, qualcosa di concreto, in cambio della pace palestinese, qualcosa invece d’immateriale. Ma quegli accordi furono squilibrati fin dall’inizio a favore dello Stato ebraico: Arafat riconosceva il diritto israeliano a una nazione, Rabin solo quello dell’Olp a rappresentare le aspirazioni dei palestinesi. Nessun chiarimento su cosa gli arabi potessero aspirare. Ma il virus che nascondeva gli accordi di Oslo era un altro: le colonie. Non solo il testo degli accordi non menzionava gli insediamenti e tantomeno un possibile ritiro totale o parziale. Ma dal 1993 al 2000, da Oslo a Camp David — nel migliore momento del processo di pace, non in piena Intifada — il numero delle colonie e dei loro abitanti è raddoppiato. Nei sette anni che dovevano costruire la fiducia tra i nemici, i governi del Likud nè i laburisti hanno mai modificato quelle leggi che favorivano il trasferimento di israeliani oltre la Linea Verde, nei Territori: agevolazioni fiscali, mutui a tasso zero, incentivi economici. Oggi quell’insieme di norme continua ad essere in vigore.

I palestinesi dei Territori occupati non hanno mai avuto la sensazione fisica di quel processo di pace. Al contrario, Oslo per loro era un inganno; gli uomini che lo avevano accettato, degli incapaci o dei traditori e quelli che lo avevano respinto, cioè Hamas, degli eroi. Inoltre, i palestinesi passavano da un’occupazione israeliana che restava attorno a loro — posti di blocco, limitazione al transito delle persone e delle merci, divieti e arresti — al governo autoritario di Arafat. Per un buon numero di anni a Israele non ha importato che l’Autorità Palestinese stesse diventando democratica o dispotica, trasparente o corrotta. Poi è scoppiata la seconda Intifada e Arafat è tornato ad essere il nemico. «Manca l’interlocutore», diceva Ariel Sharon. Il rais palestinese ha giocato male la sua partita, è stato ambiguo; che l’avesse promosso o meno, si è comunque servito del terrorismo e non lo ha fermato.

Morto Arafat e arrivato Abu Mazen, voluto con forza dagli Stati Uniti e dagli stessi israeliani, ci si attendeva che a Gerusalemme aiutassero il nuovo presidente palestinese a rafforzare il suo potere, ad assecondare le richieste ebraiche e americane senza apparire arrendevole ai suoi. Invece con lui Israele si è comportato come con Arafat: non lo ha chiuso dentro la gabbia della Mukata, a Ramallah; ma ha continuato la politica degli omicidi mirati, ha continuato ad arrestare palestinesi, a costruire muri, strade per i coloni, allargare insediamenti; a favorire sempre e in ogni momento le esigenze della sicurezza alle possibilità del dialogo. Israele pretendeva che Abu Mazen imponesse l’ordine in Palestina, fermasse anche con la forza le milizie armate; ma intanto gli impediva di affermare il suo potere. Anzi: lo minava giorno dopo giorno.

Sharon ha liberato prigionieri dell’Hezbollah libanese, scambiandoli con un ostaggio israeliano dal dubbio profilo: ha trattato con un’organizzazione terroristica ma non ha mai ascoltato le richieste di Abu Mazen di scarcerare detenuti politici palestinesi. Quando finalmente lo ha fatto, molti degli uomini tornati in libertà erano criminali comuni. E comunque già dopo qualche settimana i nuovi arrestati nei Territori erano più di quelli liberati. Durante l’ultima campagna elettorale per il parlamento palestinese, gli israeliani non hanno mosso un dito per favorire il partito di Abu Mazen con qualche gesto di apertura, con una ripresa anche formale della trattativa di pace. Il ritiro da Gaza è stato unilaterale: una scelta dettata e condotta da valutazioni esclusivamente israeliane. Il loro comportamento alle legislative palestinesi è stato uguale a quello di Arafat nel 2001, quando lasciò che quelle elezioni israeliane le vincesse il falco Sharon e le perdesse il laburista Ehud Barak. Il mese scorso ha perso Fatah e vinto Hamas. Eccetto qualche commentatore di “Yedioth Ahronoth” e “Ha’aretz”, nessun politico israeliano ha ammesso qualche errore. La colpa è solo dei palestinesi.

NOTE SULL'AUTORE 

Ugo Tramballi

Inviato speciale de Il Sole 24 Ore e responsabile del blog http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/ 

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