Home ≫ ANALISI

L’Analisi

La sfida della doppia appartenenza

di Janiki Cingoli

Data pubblicazione:13 giugno 2017

Le polemiche che stanno imperversando sul caso della scuola islamica di via Quaranta a Milano rischiano di far rimanere la delicata e complessa questione delle politiche di integrazione scolastica sul piano della sterile contrapposizione. Chi si fa promotore di progetti in tal senso non dovrebbe avere la pretesa di proporre modelli, ma semplicemente di favorire dei processi, intervenendo in situazioni concrete. A questa filosofia abbiamo cercato di ispirarci nell’esperienza condotta negli ultimi anni con la scuola islamica di via Quaranta, a Milano, che vorrei qui brevemente ripercorrere. Non senza però, appunto, aver prima rimarcato che la maggioranza dei musulmani mandano i propri figli nelle scuole pubbliche e talvolta persino in quelle private di ispirazione cristiana. Il tema dell’intercultura va dunque ben oltre questo caso specifico, che non vuole e non deve diventare paradigmatico o costituire un precedente, ma che ci permette unicamente di mettere alla prova in una determinata situazione alcuni orientamenti che possono essere tenuti presenti anche nell’affrontare la questione più in generale, nelle varie forme in cui essa si presenta. Oltre quindici anni fa, nel capoluogo lombardo, presso il Centro Islamico di Viale Jenner, è stata costituita una scuola autogestita che per qualche tempo ha operato nei locali del centro stesso, ma si è poi trasferita appunto in via Quaranta, affittando una palazzina ove attualmente sono ospitate classi di scuola materna, elementare e media, per un numero totale di quasi cinquecento alunni. Fino a circa quattro anni fa, le lezioni erano impartite solo in arabo, secondo i programmi egiziani. Alla fine di ogni anno, infatti, gli alunni – prevalentemente egiziani – sostengono un esame presso il loro Consolato per ottenere il titolo di studio valido nel loro paese. A questo soprattutto miravano, in attesa di un imminente ritorno che, nei fatti, veniva tuttavia sempre rimandato. Conoscendo alcuni esponenti della comunità, giustamente preoccupati per il futuro dei loro figli, abbiamo intrapreso, insieme ad alcuni colleghi dell’Università Cattolica, con l’appoggio della Direzione Scolastica Regionale e del Comune di Milano e grazie a un finanziamento della Fondazione Cariplo, un percorso di integrazione che ha realizzato:
– l’inizio dell’insegnamento dell’italiano all’interno della scuola stessa per una parte degli alunni e per un gruppo di adulti;
– laboratori linguistici per altri gruppi di alunni, nelle scuole italiane vicine, insieme agli stranieri presenti in esse;
– l’accompagnamento all’esame di III media italiano per i più grandi e per esami di idoneità a classi intermedie per molti altri.
Due anni fa si era anche sperimentato un inserimento “protetto” di una classe di ragazze in prima liceo presso un istituto italiano della zona, al pomeriggio. Da questa prima esperienza era nata l’idea di una classe vera e propria riservata agli studenti provenienti da via Quaranta presso il liceo G. Agnesi che non ha potuto essere realizzata a causa del veto da parte del Ministero. Si sarebbe comunque trattato di una soluzione temporanea, finalizzata a ridurre l’impatto con la scuola italiana dove il linguaggio, l’abbigliamento e taluni comportamenti degli allievi avrebbero potuto destare disagio soprattutto nelle ragazze musulmane.
Mi rendo conto che si tratta di risultati ancora parziali, ma che vanno nel senso di una progressiva regolarizzazione di una situazione prima totalmente fuori controllo. L’idea guida che ci ha ispirato è che l’integrazione deve essere proposta, ma non può venire imposta. L’esigenza che gli alunni arabi non perdessero la loro lingua e la cultura d’origine ci è sembrata legittima, pertanto occorreva fornire delle risposte che venissero incontro a tale necessità, senza però che questo comportasse un’auto-segregazione dannosa per le prospettive di un valido inserimento dei discenti nella nostra società. Se ci auguriamo che la seconda generazione di immigrati musulmani nel nostro paese possa domani giocare un ruolo efficace di mediazione con le comunità a cui appartengono e nei confronti degli stessi paesi dai quali provengono, la sfida che ci sta davanti è appunto quella di far maturare in loro il sentimento di una doppia appartenenza, alla loro cultura d’origine e a quella del paese in cui sono ospitati, senza accontentarci di una mera assimilazione né accettare forme di separatezza. Un simile percorso, oltre ai vantaggi che potrà offrire in futuro per la vita dei singoli e delle collettività, comporta da subito una sorta di “educazione civica” dei gruppi di famiglie coinvolte. Abituati a società nelle quali le istituzioni sono spesso assenti o che al massimo intervengono in forma autoritaria, gli immigrati tendono spontaneamente a rifugiarsi in una specie di società parallela, evitando di emergere. In particolare, nelle scuole del mondo arabo, i contatti tra famiglie e istituzione si limitano a casi gravi di comportamento asociale o indisciplinato. Per ovviare a questo stato di cose, la sola condizione preliminare che abbiamo posto per intraprendere il nostro progetto è stata appunto quella di accettare un rapporto diretto con le istituzioni, consapevoli che una felice esperienza di contatto con gli ambienti educativi italiani avrebbe fatto cadere riserve e diffidenze da parte di coloro che vi avrebbero preso parte.
In parte ciò sta già accadendo e posso dire che i contatti diretti con le famiglie ci hanno dimostrato che, in molti casi, qualora si prospettino soluzioni che consentano il mantenimento della lingua e della cultura d’origine accanto all’apprendimento secondo i programmi ministeriali e in lingua italiana, i genitori dei bambini più piccoli sono generalmente disponibili al loro inserimento nelle scuole pubbliche. Permangono invece maggiori resistenze da parte delle famiglie che hanno ragazze adolescenti. In generale non va dimenticato che, per mandarli alla scuola islamica – spesso molto distante dalla loro abitazione – essi devono affrontare numerosi disagi, specialmente riguardo al trasporto degli alunni, oltre a dover pagare una retta per ciascuno dei loro figli (più di uno, nella maggior parte dei casi) che comunque si trovano a frequentare un luogo che dal punto di vista della struttura e delle attrezzature risulta meno fornito rispetto a una qualsiasi scuola italiana. La comunicazione diretta con le famiglie e la disponibilità a tenere debitamente conto delle loro esigenze risultano quindi i due elementi fondamentali per ovviare alla logica di separatezza che ha a lungo prevalso nelle scelte dei componenti di questa comunità. Meno decisive sembrano invece alcune riserve che teoricamente sono state sollevate a proposito di determinate materie e contenuti o relative ai libri di testo. Il timore che ne potesse derivare un danno per i valori tipici della loro tradizione originaria sono stati facilmente fugati dal clima di fiducia che si è presto instaurato fra tutti coloro che hanno preso parte al progetto. Ancora una volta si è evidenziato che sono soprattutto la scarsa comunicazione e la mancanza di una conoscenza reciproca a destare diffidenze e chiusure.
Dal punto di vista culturale, infine, credo che sia controproducente opporre modelli formativi o contenuti ponendo come precondizione la prevalenza di un determinato orientamento rispetto ad altri. Non rinuncerei infatti all’ambizione che, un lavoro comune in proposito, possa costituire un valido banco di prova sul quale misurare la nostra capacità di interagire positivamente nell’interesse comune. In altre parole, la presenza di allievi che appartengono ad altre civiltà, dovrebbe stimolarci a cercare di affrontare l’insegnamento di determinate materie (penso soprattutto a quelle umanistiche, ma nel caso degli arabi non vanno escluse neppure quelle scientifiche alle quali essi hanno storicamente dato un fondamentale contributo) in modo da valorizzare la circolazione di idee che nel corso del tempo ha caratterizzato vaste aree di comune appartenenza, come il Mediterraneo. La produzione di materiali interdisciplinari in questo campo potrebbe essere di valido aiuto anche nella scuole regolari, dove il numero degli stranieri presenti è in costante aumento.
Si tratta di ipotesi di lavoro tutto sommato abbastanza semplici e di base, ma significative sotto diversi punti di vista. Da un lato ci consentirebbero di attuare un tipo di intervento di vasto respiro, non limitato solamente a situazioni di emergenza che spesso finiscono per essere subite e in definitiva unicamente “tamponate” piuttosto che realmente gestite. Dall’altro permetterebbero di dare concreta applicazione a molti proclami che spesso rimangono relegati nella lista delle buone intenzioni espresse in numerosi convegni e seminari che hanno per tema la globalizzazione, l’intercultura o lo scontro di civiltà, come nel recente Convegno Internazionale “Islam in Europa. Islam Europeo”, organizzato dal CIPMO e dal Comune di Milano. In un paese come l’Italia, anche geograficamente proteso verso il Nordafrica e il Medio Oriente, è facile infatti fare della retorica a proposito della nostra vocazione mediterranea, senza che a questo faccia seguito un impegno effettivo. Le nostre radici, di cui tanto si è recentemente discusso affinché avessero un’adeguata collocazione anche nei documenti ufficiali della nuova Europa, vengono messe quotidianamente alla prova dalla sfida della società multiculturale. Se non sapremo cogliere efficacemente quest’ultima, avrà in fondo scarsa importanza la forma in cui decideremo di fare riferimento ad esse nelle dichiarazioni di principio.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

Leggi tutte le ANALISI