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L’Analisi

La posta in gioco a Gaza

di Vittorio Dan Segre

Data pubblicazione: 4 luglio 2005

Coll’avvicinarsi della data dello sgombero dei coloni israeliani dalla striscia di Gaza si moltiplicano le domande sulle sue conseguenze e sul ruolo del personaggio – il premier Ariel Sharon – che ha preso questa decisione, contro ogni sorta di opposizioni all’interno del suo partito, del paese e contro le idee da lui difese nel corso di una intera esistenza. Questo contrasto – politico, ideologico, umano – aumenta la teatralità mediatica di una situazione di per se drammatica e simbolica.

Il contrasto politico accompagna dai suoi albori la “questione palestinese”. Alla sua radice questa questione non differisce da una delle tante lotte di popoli per lo stesso territorio. Ma non è solo cosi, principalmente per due ragioni .

Per i palestinesi l’evacuazione dei coloni da Gaza rappresenta la prima prova tangibile della loro capacità di raddrizzare una ingiustizia, incarnata, fra l’altro, nella perdita del territorio ma soprattutto della possibilità di ottenere il riconoscimento di diritti storici considerati inalienabili. Un doppio processo con valore simbolico che va al di là del problema territoriale, formando l’essenza di una emergente identità nazionale. Una identità che ha assunto un ruolo quasi universale di porta bandiera nella lotta contro quelli che sono considerati dal mondo arabo i
grandi mali della nostra epoca: colonialismo, razzismo, povertà, nazionalismo, imperialismo americano (e sionista) etc. Senza questo ruolo – che rappresentò la forza rivoluzionaria di Arafat – i palestinesi rischierebbero di rimanere una versione araba del sionismo o di un pan
arabismo omai scaduto o di un islamismo ostile all’emergere di una nazione palestinese che si vuole laica e democratica.

Qualcosa di simile succede con gli israeliani. Hanno mostrato grande flessibilità nelle concessioni territoriali sioniste (la Trangiordania nel 1922 che era parte internazionalmente riconosciuta del territorio mandatario britannico sui cui costruire un “focolare nazionale ebraico”; la Cisgiordania, con l’accettazione nel 1947 del piano dell’ONU di spartizione della Palestina; i territori conquistati all’Egitto nel 1967) in quanto fattori importanti ma non determinanti per i due scopi fondamentali del movimento nazionale ebraico: riconoscimento del diritto alla sovranità ebraica e definizioni delle sue frontiere. Due scopi realizzati coi trattati di pace con l’Egitto, la Giordania; col riconoscimento da parte delle Nazioni Unite della linea di frontiera col Libano (e potenzialmente “in pectore” anche con la Siria). La partita resta invece aperta con la Palestina per cui l’evacuazione dei coloni da Gaza non risolve tanto dal punto di vista israeliano quanto da quello palestinese la questione.

Tenuto poi conto del processo di radicalizzazione ideologica delle forze politiche all’interno dei due campi, l’evacuazione rischia di aumentare la tensione invece che diminuirla.
Se si analizza da questa prospettiva il ruolo apparentemente paradossale di un personaggio discusso e contraddittorio come Sharon che agisce contro le forze politiche che lo hanno portato al potere e contro tutti i principi sionisti e militari che hanno guidato la sua passata condotta politica, militare e ideologica la chiave per la comprensione della sua nuova strategia si trova , probabilmente, in una frase da lui pronunciata ancor prima di diventare primo ministro. E cioè che “dall’alto delle responsabilità di governo le cose si vedono in maniera diversa che dal basso”. Puo suonare banale, ma non quando ci si chiede che cosa apparentemente ha visto.

Ovviamente i pericoli legati alle realtà demografiche. Israele non può sperare di rimanere uno stato democratico e ebraico mantenendo sotto il suo controllo una popolazione araba che già nell’attuale regime di occupazione tende ad eguagliasi numericamente con la popolazione ebraica.

Ovviamente il bisogno di mantenere stretti rapporti con l’alleato americano che ha bisogno di “incassare” un successo in Palestina se non altro per bilanciare i disastri che incontra in Iraq.

Ovviamente la realizzazione del costo morale politico ed economico insostenibile della colonizzazione. Ma queste considerazioni per quanto importanti sono sempre esistite e non sarebbero state sufficienti ad indurre un personaggio come Sharon ad abbandonare i suoi principi e soprattutto l’idea che uno stato palestinese rappresenta una minaccia permanente per la sopravvivenza di quello israeliano.

Determinante, invece, sembra essere stata la sua realizzazione del fatto che mentre le guerre fra lo stato israeliano e gli stati arabi sono sempre state costruttive per Israele, in una guerra fra popoli diventa distruttiva in quanto forma di guerra civile. Da qui la necessità di avere come partner -di pace o di guerra – uno stato palestinese.

Questa è la posta in gioco a Gaza. Dalle ricadute dell’evacuazione, non meno che dalle immagini delle violenze che l’accompagneranno, dipenderà il futuro politico di Sharon e quello della pace.

NOTE SULL'AUTORE 

Vittorio Dan Segre

Diplomatico, scrittore e giornalista.

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