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L’Analisi

Israele, novità e incognite nelle prossime elezioni

di Antonio Ferrari

Data pubblicazione: 14 dicembre 2015

Negli ultimi quindici anni le elezioni israeliane sono state appassionanti perchè si fronteggiavano due fronti chiaramente contrapposti. Contrapposte le idee, divergenti i programmi e le strade per poterli realizzare. Accadde nel 1992 quando vinse il laburista Yitzhak Rabin, che forse aveva già in mente gli accordi segreti di Oslo dell’anno successivo. Accadde nel ’96, quando il conservatore Benjamin Netanyahu sconfisse di misura (poco più di 20.000 voti) il laburista Shimon Peres. Vendicato, al turno successivo, dall’altro leader della sinistra Ehud Barak. Meno emozionanti, perchè largamente prevedibili, le successive affermazioni del leader del Likud Ariel Sharon, che aveva saputo sfruttare quel senso di insicurezza e di paura (del terrorismo) che condizionava pesantemente la società israeliana. Ma nessuno avrebbe immaginato, non soltanto la rivoluzione politica degli ultimi mesi, ma la possibilità che i due partiti più forti (l'”Avanti”, fondato dallo stesso Sharon, e il rinnovato Labour di Amir Peretz) si sarebbero dati battaglia con l’obiettivo però di trovare un accordo subito dopo il voto. Lasciando agli altri partiti, a cominciare dal devastato Likud, orfano del premier uscente, un ruolo (salvo sorprese che nel  Medio Oriente non si possono mai escludere) abbastanza marginale. Le grandi novità, che comunque peseranno sul voto di marzo, sono sostanzialmente tre: prima, naturalmente, è la decisione di Sharon di abbandonare il partito di cui è stato l’anima e, insieme, il condottiero-vincente, e di convergere al centro per dar vita ad uno schieramento poco ideologico e più attento (se è giusta l’interpretazione) alla sostanza rispetto alla forma. La seconda è legata ad un’altra defezione, quella di Shimon Peres, che ha abbandonato il Labour per cercare un futuro al fianco dell’antico nemico. Infine, la clamorosa (anche se in parte prevista) affermazione, al vertice del Labour, del sindacalista sefardita Amir Peretz, un giovane leader che dimostra di saper coniugare l’indubbio fiuto politico con una certa muscolarità verbale e con una contagiosa fantasia. Tutti ovviamente sanno che la nuova partita elettorale, ben oltre la personalità dei protagonisti, è legata alla rivitalizzazione del processo di pace: insomma alla volontà, sostenuta -come dicono tutti i sondaggi – dalla maggioranza degli israeliani, di tornare al tavolo dei negoziati per dar vita e contorni alla formula “Due Stati, Due popoli” che è poi la bandiera della Road Map, il cammino verso la pace che in realtà non è ancora cominciato. Il problema, quindi, sarà vedere come si presenteranno, dopo il voto, i rapporti di forza. Non c’è dubbio che a Sharon verrà riconosciuto, dal consenso popolare, il ruolo di timoniere della sfida che attende Israele; mentre Amir Peretz potrebbe diventarne la testa d’ariete, capace di rianimare la sinistra moderata e soprattutto di ammorbidire le rigidità del premier. Ma in questa partita – per ora soltanto simulata- restano le domande sull’altro grande protagonista, l’anziano Shimon Peres. Il quale non ha mai vinto un’elezione pur avendo un prestigio internazionale straordinario. C’è chi fa notare che Peres, che non riuscì neppure a diventare presidente di Israele pur avendo (numericamente e politicamente) il sostegno per essere eletto, non soltanto non è mai riuscito a prevalere con il voto popolare, ma ha sempre scelto di cambiare dopo una sconfitta. L’esempio delle primarie nel Labour ne è l’ultima conferma. Invece di dimettersi subito per approdare nel porto del nuovo partito di Sharon, ha preferito lottare con il giovane Peretz e, soltanto dopo l’ennesima umiliazione, ha deciso di andarsene e di entrare nel neo-partito centrista. Lo scrittore di sinistra Uri Avnery lo paragona a Sisifo, condannato da Giove alla fatica eterna senza avere la possibilità, con il suo fardello, di raggiungere la vetta. Davanti a Peres, però, c’è l’ultima chance, che potrebbe riscattare una brillante vita da genio delle intuizioni destinato alla sconfitta: diventare insomma il baricentro della futura alleanza per rilanciare, definitivamente, il processo di pace. E magari riproporsi, alla scadenza del mandato di Moshe Katsav, come prossimo capo dello stato. Prova indubbiamente ardua per l’ottuagenario protagonista della storia di Israele. Ma non impossibile. Questo scenario (salvo sorprese: lo ripetiamo) potrebbe essere quello del prossimo futuro. Nell’immediato, però, aleggiano due incognite: le elezioni palestinesi (25 gennaio), e il tempo che manca (tre mesi in Medio Oriente possono essere un’eternità) al voto di Israele. Basterebbe poco, purtroppo, per ridisegnare equlibri e annichilire le speranze che stanno affiorando.

NOTE SULL'AUTORE 

Antonio Ferrari

Giornalista e scrittore, nato a Modena nel 1946. Ha cominciato come cronista al «Secolo XIX» di Genova, e dal 1973 è al «Corriere della Sera»: inviato speciale ed editorialista. Dopo aver seguito gli anni del terrorismo italiano, con le trame nere e rosse, è passato all'estero. Prima in Europa e nei Paesi dell'Est comunista, per approdare nei Balcani, nel Medio Oriente e in Nord Africa. Ha seguito quasi tutte le crisi di queste regioni, le guerre, i tentativi di pacificarle. Ha intervistato, nel corso degli anni, quasi tutti i leader di un'area estesa ed estremamente variegata. È membro del Comitato scientifico del CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente) e di Gariwo (La foresta dei Giusti).

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