L’Editoriale 

Dopo Arafat

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 3 novembre 2004

L’agonia di Arafat pare avere avviato una difficile transizione nel campo palestinese, punteggiata dai ricorrenti tentativi della moglie Suha di appropriarsi della sua eredità non solo politica, malgrado da anni vivesse separata da lui. E’ probabile che Abu Mazen e Abu Ala, i due leader che insieme a Salim Zaanun compongono la troika incaricata di dirigere la ANP in sua assenza, riescano a riprendere in mano le redini della situazione.

Essi appartengono tuttavia alla vecchia generazione palestinese. Abu Mazen, cofondatore dell’OLP con Arafat, artefice palestinese degli Accordi di Oslo, è il più deciso a spezzare la spirale militarista in cui è precipitata la nuova Intifada, ma proprio questa sua posizione lo portò nel settembre 2003 alle dimissioni da Primo Ministro e ne fa il bersaglio preferito dei gruppi più oltranzisti. Alle loro spalle, premono i leaders che contano in materia di sicurezza, come Jibril Rajub e Mohammed Dahlan, uomo forte di Gaza, e poi la nuova generazione dei quarantenni, forgiatisi nell’Intifada, il cui esponente più noto, Marwan Barghouti, è nelle carceri israeliane. La società palestinese è rimasta a lungo ibernata, schiacciata tra il soffocante autoritarismo di Arafat, l’escalation dei diversi gruppi armati, e la sempre più schiacciante reazione israeliana. La situazione, tuttavia, non resta ferma. Il Presidente Bush, appena riconfermato, ha posto fin dalle prime dichiarazioni tra le sue priorità la soluzione di quel conflitto e la creazione di uno Stato palestinese, stimolato in questo anche dalle reiterate dichiarazioni di Blair.

In Israele, la situazione pare evolversi verso un Governo di Unità Nazionale, per portare avanti il progetto di ritiro da Gaza, o in alternativa a possibili elezioni anticipate, poiché la maggioranza che reggeva il Governo Sharon si è dissolta. Il piano Sharon è stato infatti approvato a larga maggioranza dalla Knesset, grazie all’appoggio dei laburisti e di tutta la sinistra, ma una metà del suo partito, il Likud, insieme agli altri partiti di estrema destra, ha votato contro. Il suo limite fondamentale è il suo carattere unilaterale, di ripiegamento a scopo difensivo, non contrattato in alcun modo con la contro parte palestinese e non inserito nel processo di pace, nella Road Map. L’uscita di scena di Arafat può favorire la ripresa del dialogo tra le due leadership. Il piano, tuttavia, spezza il tabù, radicato nella destra, della Grande Israele, decidendo l’evacuazione di 25 insediamenti e l’abbandono di Gaza. Domani, nessuno del Likud potrà ancora accusare di tradimento quei leader laburisti che proponessero l’evacuazione di altre parti della Cisgiordania. Sharon, nei giorni scorsi, partecipando alla commemorazione nell’anniversario dell’assassinio di Rabin, ha detto “Su di lui sono state pronunciate parole che non dovevano essere pronunciate”.

Era un’autocritica, per le sue stesse dichiarazioni di allora, che avevano attaccato ferocemente il Premier impegnato a portare avanti gli Accordi di Washington, contribuendo a creare un clima di violenza intorno a lui. Ma Sharon pensava anche a se stesso, oggetto degli attacchi e delle maledizioni dei coloni e dei rabbini più oltranzisti, per il suo piano di ritiro da Gaza e da quattro insediamenti della Cisgiordania. Dalia Rabin, la figlia dello statista, parlando dopo di lui, ha ricordato quel clima di violenza, ma insieme ha assicurato al Premier il suo sostegno e quello delle forze di pace israeliane al suo piano di ritiro.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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