L’Editoriale 

Tra guerra e negoziato

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 29 giugno 2006

Il Medio Oriente riconferma la sua schizofrenia cronica. Mentre il mondo si interroga sulla sorte del soldato israeliano rapito, e i carri armati israeliani penetrano minacciosi dentro Gaza, viene dato l’annuncio dell’accordo tra Abu Mazen e Hamas sul cosiddetto “Documento dei prigionieri”. L’accordo è tuttavia di grande rilevanza. Viene raggiunto un minimo comun denominatore tra le principali fazioni palestinesi, centrato su alcuni punti essenziali: la rivendicazione di uno Stato palestinese entro i confini precedenti la guerra del ’67, e quindi senza comprendervi Israele; la necessità di limitare la lotta armata entro tale area, rinunciando quindi alle azioni nello Stato ebraico; la confluenza di tutte organizzazioni palestinese, incluse quelle islamiche, dentro l’OLP, adeguatamente riformata; la delega al Presidente Abu Mazen a portare avanti il negoziato con Israele, i cui esiti dovranno essere approvati dal Consiglio Legislativo Palestinese o sottoposti a referendum approvativo.
Per quanto riguarda la lotta armata dentro i territori occupati, di cui si rivendica la legittimità, la questione che va trattata è il ripristino della Hudna, la tregua già negoziata dagli egiziani, che ha retto per oltre un anno, e che è saltata sotto il tiro incrociato degli omicidi mirati israeliani e del tiro dei Kassam palestinesi oltre il confine di Gaza, oltre che delle ultime clamorose azioni.
Le interpretazioni dell’accordo sono ovviamente contrastanti: Hamas afferma, fondatamente, che non c’è alcun riconoscimento dello Stato ebraico. Ma questo potrà esserci se, al termine del negoziato, si arriverà a costituire uno Stato palestinese che viva entro i vecchi confini, e quindi al fianco e non al posto di Israele. E’ un meccanismo simile al Piano arabo di Beirut del 2002, che condizionava il riconoscimento al ritiro dai territori occupati nel ’67.
Non si tratta, deve esser chiaro, di una piattaforma sufficiente ad avviare il negoziato con Israele. Ma viene rimossa la pregiudiziale ideologica di Hamas, con un modello negoziale a due stadi: Abu Mazen viene incaricato di condurre la trattativa fino al possibile sbocco, Hamas si riserva la valutazione sugli esiti e la possibile approvazione nel Consiglio Legislativo che controlla, salva la per Hamas temibile controprova del referendum sugli accordi.
D’altro canto, Abu Mazen potrà andare al tavolo negoziale più forte, sulla base di un mandato largo e non a titolo quasi personale, come rinfacciatogli da Israele negli ultimi mesi.
Con molto giudizio, il Governo israeliano si è tenuto fuori da tutta la discussione, evitando di mettere il suo cappello sul documento, che è rimasto quindi un documento interno palestinese.
Anche da quella parte, tuttavia, sono venuti segnali consistenti di movimento, di fronte alle riserve statunitensi e soprattutto europee verso l’annunciato ritiro unilaterale dalla Cisgiordania.
La proposta, avanzata in via informale dal Ministro degli Esteri israeliano Zipi Livni, è quella di passare direttamente alla seconda fase della Road Map, con la creazione di uno Stato palestinese provvisorio a Gaza e in quel 90% della Cisgiordania interessata al ritiro, quella per intenderci al di là del muro. Non si tratterebbe, si assicura, di un confine definitivo, ma questo sarebbe oggetto di un negoziato fra i due Stati, entro tempi definiti.
Il problema, tuttavia, è cosa avverrebbe nel frattempo in quel 10% rimasto, se gli insediamenti continuerebbero a espandersi, se il sistema infrastrutturale e viario verrebbe esteso e completato, attraverso una annessione di fatto destinata poi a divenire di diritto. Nessuno nega più oggi che è difficile smantellare gli insediamenti più grandi, intorno a Gerusalemme e lungo la Linea Verde, il problema è se Israele vuole annettersi anche le loro possibili espansioni future, tutte generosamente comprese nel muro. L’altra questione è quello degli scambi territoriali a favore dei palestinesi, per compensarli delle aree interessate dagli insediamenti. Scambi, per citare Bush, che devono esere reciproci e mutuamente concordati. Scambi possibili, se ci si limita al 4-5% della Cisgiordania, come previsto a Camp David e Taba, ma impraticabili se si pensa a tutto quel 10%.

Articolo pubblicato su Europa

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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