L’Editoriale 

I muscoli di Israele

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 30 giugno 2006

La cattura di otto ministri, ventidue parlamentari ed altri esponenti palestinesi appartenenti ad Hamas, e la distruzione di essenziali infrastrutture a Gaza, dimostra che il governo israeliano non è disposto ad accettare passivamente il sequestro del proprio soldato a Gaza, e il rapimento con la successiva uccisione di un colono in Cisgiordania.
Il fatto che un portavoce del governo palestinese abbia proposto quasi ufficialmente uno scambio con i prigionieri palestinesi dimostra solo a quale livello di confusione si sia arrivati in Palestina. Uno scambio di prigionieri lo può proporre una organizzazione armata, non un governo che vuole essere riconosciuto internazionalmente ed essere considerato un interlocutore affidabile.
La risposta di Olmert è sotto i nostri occhi. Si tratta di una reazione comprensibile. Vi è una opinione pubblica che preme, che accusa Olmert con i suoi progetti di nuovi ritiri unilaterali in Cisgiordania di voler creare dei nuovi Hamastan, dopo Gaza. Una opinione pubblica inferocita per il lancio continuo di razzi qassam sulle proprie città al confine con Gaza, che si vede ora esposta al rischio di una ulteriore libanizzazione del conflitto, con l’avvio della pratica dei rapimenti, largamente praticata in Libano e poi ampiamente diffusasi in Iraq, con sostanziale successo.
La reazione muscolare di Israele, tuttavia, rischia solo di accelerare l’uccisione dell’ostaggio: i palestinesi possono ragionevolmente pensare che, dopo il rinvenimento, gli israeliani resterebbero al massimo qualche giorno, e poi finirebbero per ritirarsi. Al contrario, finché la vicenda continua, anche la rioccupazione israeliana è destinata a durare.
La cattura degli esponenti di Hamas sembra in realtà indicare un’altra strategia. Hamas resta in Israele una organizzazione illegale, considerata come terroristica dalla comunità internazionale, e quindi la minaccia di sottoporre a processo queste personalità ha un fondamento giuridico. Il fatto che fino ad oggi Israele abbia tollerato in via di fatto la attività degli esponenti della organizzazione islamica, non significa che questa tolleranza debba continuare indefinitivamente, nel momento in cui è il governo stesso a rivendicare una contiguità e una continuità con il sequestro di cittadini israeliani. Uguale la logica del sorvolo effettuato su Damasco: un avvertimento a Meshall, il leader di Hamas all’estero, e allo stesso Assad che lo protegge.
La questione è: dove porta tutto questo? Far crollare la contraddittoria scelta parlamentaristica di Hamas, respingerlo nella illegalità praticata per tanti anni, è nell’interesse di Israele, serve alla sua sicurezza? Se il rapimento è stato suggerito da Meshall per intralciare l’accordo tra Al Fatah ed Hamas, a sostegno del “documento dei prigionieri” contenente un primo riconoscimento, anche indiretto, di Israele, è utile spezzare questo processo ancora embrionale?
Certo, tutti gli sforzi in questo momento devono essere tesi alla liberazione dell’ostaggio nelle mani di Hamas, e l’iniziativa di diversi governi arabi, a cominciare dall’Egitto, è certamente importante.
La stessa Unione Europea può far sapere al governo palestinese che un epilogo luttuoso della vicenda non potrebbe non avere impatto sul processo di riavvio degli aiuti internazionali alla popolazione palestinese, cominciato in queste settimane.
Ma è evidente che la questione di fondo è operare, a breve, per il ripristino della hudna, la tregua della lotta armata negoziata dagli egiziani e rispettata da Hamas per oltre un anno, includendovi il blocco del lancio dei razzi qassam su Israele, a cui deve corrispondere il blocco degli omicidi mirati israeliani ed il ripristino della agibilità politica per il Governo palestinese.
A medio termine, l’unica strada è il rilancio del negoziato tra Olmert e Abu Mazen, un Abu Mazen rafforzato dall’accordo raggiunto con Hamas. L’esperienza di questi giorni dimostra che lasciar incancrenire la situazione non porta a nulla di buono, e a molto di cattivo.

Articolo pubblicato su Europa

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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