L’Editoriale 

Equivicinanza creativa. Lettera del CIPMO al Corriere della Sera

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 12 luglio 2006

Siamo grati al prof. Sergio Romano per aver ospitato la nostra lettera sulla “equivicinanza” nella sua rubrica su Il Corriere della Sera.
Anche se il Ministro D’Alema, rispondendo ironicamente alle critiche che si erano levate da alcuni ambienti ebraici, direi più realisti del re, ha detto che questa oramai è divenuta una “parolaccia”, l’equivicinanza ci pare più che mai essenziale in questi giorni così drammatici.
Non si può infatti prescindere, nell’affrontare questa crisi, dall’angoscia della popolazione civile palestinese, sottoposta alle consegenze degli attacchi israeliani volti a stroncare il lancio dei razzi Kassam sulle città israeliane al confine con Gaza e a impedire il trasferimento all’estero di Gilad Shalit, il soldato rapito.
E non si può non considerare l’angoscia di quelle città israeliane e di quella opinione pubblica, che si trovano esposte al lancio quotidiano dei razzi, proprio dopo l’evacuazione di Gaza, e al rapimento dei propri soldati.
Proprio mentre scriviamo, ci giunge la notizia del rapimento di altri due soldati al confine con il Libano, da parte degli Hezbollah, a testimonianza che il dramma non e’ concluso e si espande a nuovi teatri di conflitto.
L’angoscia è una morsa che costringe le due parti in conflitto in una oramai meccanica coazione a ripercorrere l’ormai logora trafila terrorismo – repressione – terrorismo. Anche se entrambe sono consapevoli che questo approccio non offre sbocchi e non dà soluzioni.
E’ disperante constatare che la crisi si sviluppa proprio nel momento in cui sono apparsi importanti segnali di una nuova disponibilità negoziale.
In campo palestinese, con il documento dei prigionieri, sottoscritto da Hamas oltre che da Fatah, che costituisce un nuovo e più avanzato minimo comun denominatore interpalestinese, e conferisce ad Abu Mazen un nuovo e piu’ forte mandato a negoziare con Israele, di cui viene dato un primo implicito riconoscimento.
In campo israeliano, con la nuova disponibilità, ufficiosa e tutta da verificare, a includere nel negoziato anche la striscia della Cisgiordania compresa entro il muro difensivo, e a accettare la costituzione di uno Stato palestinese provvisorio nella parte restante della Cisgiordania e a Gaza, passando così direttamente alla seconda fase della Road Map.
La Comunità internazionale deve ottenere il rilascio del soldato israeliano prigioniero; il rilascio parallelo e indipendente di un congruo numero di prigionieri palestinesi, che avrebbe dovuto essere avvenuto già da tempo, e di cui Israele oggi sconta il ritardo; il ripristino della Hudna, la tregua negoziata dagli egiziani con i gruppi armati palestinesi, che aveva retto per oltre un anno; la fine degli attacchi mirati israeliani.
In sostanza, si deve perseguire la realizazzione di Confidence Building Measures unlaterali, parallele e di fatto concordate.
Ma è oramai evidente che non si puo’ tenere a marcire questo conflitto, che l’equilibrio della forza non riesce più a arginare e controllare.
Il processo diplomatico per tappe avviato a Oslo e sviluppato dalla Road Map è oramai esaurito, come è testimoniato anche dalla ultima iniziativa diplomatica israeliana. E’ necessario ricominciare dalla fine, dal negoziato sul Final Status, sullo Stato palestinese, sui confini, sui rifugiati, sugli insediamenti, su Gerusalemme e sull’acqua.
E per questo vi è più che mai bisogno di equivicinanza creativa.

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La lettera al Prof. Sergio romano

La questione palestinese e il concetto di equivicinanza 

I quotidiani in questi giorni sono inflazionati dal termine «equivicinanza». Siamo stai noi del Centro italiano per la Pace in Medio Oriente – Cipmo – a inventarlo, alla fine del 2001. La cosa nacque da una discussione al nostro interno, all’inizio della seconda intifada. Alcuni fra noi sostenevano che non si doveva essere equidistanti tra occupanti e occupati.
Concludemmo che noi non eravamo equidistanti rispetto al fatto che l’occupazione dovesse finire, anche se naturalmente si doveva tener conto anche degli errori commessi dal mondo arabo e dagli stessi palestinesi, prima e dopo la guerra del ’67, e che sono all’origine per tanti versi della persistenza di quella occupazione. Ma insieme affermammo che si doveva perseguire uno sforzo di «equivicinanza» rispetto ai due popoli in conflitto, tendente a comprendere le ragioni, le idee, le proposte e gli stessi sentimenti, a farsi carico dei loro problemi, delle loro sofferenze, dei loro stessi limiti. Tutto ciò allo scopo di facilitare la comprensione reciproca e aiutarli a uscire dal tunnel della violenza e della disumanizzazione del nemico, creando le condizioni migliori per la costruzione di materiali, idee, proposte, contatti utili alla difficile ripresa del processo negoziale. Mi capitò di esprimere queste idee a un seminario tra israeliani e palestinesi, nel dicembre 2001, cui partecipò il senatore Andreotti, e a una riunione con Fassino.
Entrambi apprezzarono il termine e lo fecero proprio, come più recentemente ha fatto il ministro D’Alema.
Mi pare però che esso, strada facendo, abbia un po’ perso il suo significato originario, acquisendo una connotazione «buonista» o al contrario di equidistanza diplomatica tra i governi che non è quella originaria.
Pensa che dovremmo chiedere il copyright?

Janiki Cingoli – Direttore Cipmo www.cipmo.org

La risposta.

Caro Cingoli, anch’io, durante un convegno a Venezia il 22 giugno, ho constatato che Massimo D’Alema usava con piacere, parlando della questione palestinese, la parola «equivicinanza». Ma dopo avere letto l’intervista che ha dato al Corriere del 6 luglio, ho l’impressione che il ministro degli Esteri le concederebbe il copyright senza esitare. A una osservazione di Antonio Macaluso sulla crisi in Palestina e «la posizione cosiddetta di equivicinanza», D’Alema ha risposto: «Equivicinanza è una brutta parola, che viene usata in senso spregiativo. Il concetto è più alto: essere egualmente amici del popolo palestinese e di quello israeliano. Si dice così». Si è accorto, probabilmente, che la parola stava subendo parecchie critiche, soprattutto nelle comunità ebraiche, e ha preferito prenderne le distanze. In realtà la parola non è né bella né brutta. Nell’uso che ne è stato fatto è una felice espressione diplomatica, particolarmente utile in alcune circostanze. La persona che se ne serve dimostra di non avere pregiudizi e partiti presi, di essere disposta ad ascoltare serenamente le ragioni degli uni e degli altri, di avere un atteggiamento che in altri tempi si sarebbe definito equanime. Ma presenta un inconveniente. Può essere usata con successo soltanto quando si aprono spiragli di dialogo e sembra essere giunta finalmente l’ora delle trattative. Questo è accaduto quando gli «equivicini» hanno sperato che la linea politica del presidente palestinese Abu Mazen, successore di Arafat, avrebbe reso possibile un negoziato e un compromesso. In quel momento sarebbe stato del tutto inutile e controproducente rivangare le responsabilità degli uni e degli altri. Era meglio dimenticare il passato e pensare al futuro. Un buon esempio di «equivicinanza» è quello del primo ministro britannico Blair prima degli accordi anglo-irlandesi del Venerdì Santo o, più recentememente, quello del primo ministro spagnolo Zapatero nella fase che ha preceduto l’inizio dei negoziati con l’organizzazione basca Eta. Ma oggi la situazione in Palestina è alquanto diversa. Dopo l’elezione di Hamas, il suo rifiuto di riconoscere Israele, il rifiuto israeliano di dialogare con il nuovo governo palestinese, la cattura di un soldato israeliano e l’uccisione di un colono, il quadro è bruscamente peggiorato. Le confesso, caro Cingoli, che mi è molto difficile essere equivicino nel momento in cui Israele assedia la striscia di Gaza con operazioni di rappresaglia che coinvolgono direttamente la popolazione civile e tratta i membri del governo o dell’Assemblea legislativa palestinese, eletti dai loro connazionali, come esponenti di una organizzazione terroristica. Il governo di Gerusalemme spera che le sue pressioni inducano Abu Mazen e il governo palestinese a colpire e dissolvere i gruppi dei militanti armati. Ma tratta la società palestinese, di fatto, come un nemico collettivo. E non si accorge di trasformare il terrorismo in resistenza.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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