L’Editoriale 

Il ritardo dell’Europa

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 25 luglio 2006

La reazione dell’Europa (e dello stesso Governo italiano) alla grave crisi sviluppatasi in Medio Oriente è stata tarda e rituale, e priva di una conseguente visione complessiva della situazione. Ci si è limitati, inizialmente, a chiedere il rilascio dei soldati israeliani rapiti, e a deplorare la sproporzione della reazione israeliana prima a Gaza, e ancor più in Libano, auspicando in sostanza un rapido rientro nella normalità precedente.
Il problema è che quella normalità era profondamente anormale, e si reggeva su un equilibrio precario che ora appare definitivamente spezzato.
Israele ha potuto convivere, per un certo tempo, con il lancio di razzi kassam dalla striscia di Gaza, in cui le diverse organizzazioni armate palestinesi facevano a gara nel colpire le città del “nemico sionista”, dalle aree abbandonate volontariamente dall’esercito israeliano l’estate scorsa. Ed ha potuto coabitare con le milizie di Hezbollah appostate oltre il confine, malgrado qualche saltuario lancio di razzi turbasse la tregua de facto stipulata negli anni scorsi con la mediazione informale degli inviati dell’ONU.
Il doppio rapimento, prima a Gaza, poi al confine libanese, ha rotto questa tregua guerreggiata, facendone esplodere tutte le contraddizioni.
Sarebbe stato forse possibile circoscrivere la crisi, se essa fosse rimasta limitata al versante palestinese. La mediazione egiziana, che puntava a un rilascio del soldato rapito, e a un rilascio successivo e ufficialmente indipendente, di prigionieri palestinesi da parte israeliana, era stata sostanzialmente accettata dal Governo Olmert, ed anche da Hamas, che si era altresì impegnata a porre fine al lancio di razzi contro Israele. Mi trovavo giovedì scorso al Cairo, dove Al Ahram riportava una durissima intervista di Mubarak, in cui pur senza nominarla si accusava la Siria di essere intervenuta pesantemente su Hamas, per affondare l’accordo che si stava profilando.
Negli stessi giorni, con una contemporaneità certamente non casuale, esplodeva lo scontro sul versante libanese.
Il Libano rappresenta una esperienza per certi versi emblematica: con il suo ritiro, Israele ha pienamente adempiuto alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, come è stato ufficialmente riconosciuto dalla stessa ONU. Ma la risoluzione ONU 1559 del 2004 chiedeva espressamente, oltre al ritiro delle truppe siriane, il disarmo delle milizie armate libanesi. E quest’ultima prescrizione è stata totalmente ignorata, mentre esponenti di Hezbollah siedono nel Parlamento e nello stesso Governo del paese.
Le milizie di Hezbollah si sono attestate lungo il confine con Israele, su cui avrebbe dovuto essere dispiegato l’esercito libanese, ed hanno accumulato migliaia di razzi e di missili a corta e media gittata, con cui in questi giorni sono bersagliate le maggiori città del Nord israeliano, da Haifa a Nazareth. I rifornimenti di armi sono passati attraverso la Siria, le armi sono per lo più di provenienza iraniana, così come i “guardiani della rivoluzione”, che costituiscono il personale addetto all’addestramento e al puntamento dei vettori più sofisticati.
La crisi ha assunto quindi connotazioni non più locali e bilaterali, ma regionali, ed il rischio di un suo ulteriore allargamento è estremamente alto.
L’Iran l’ha utilizzata per distogliere l’attenzione della Comunità internazionale dal suo contestato programma atomico, e per riaffermarsi essenziale attore del panorama regionale (la stessa richiesta di collaborazione avanzata a Teheran da Romano Prodi ha avuto molto il sentore di una chiamata di correo).
La Siria, dal canto suo, ha come politica tradizionale quella di interporsi contro ogni tentativo di accordo bilaterale israelo-palestinese che la escluda e che soprattutto marginalizzi le sue rivendicazioni volte a recuperare il Golan siriano.
L’asse Hamas –Siria – Hezbollah – Iran ha dunque funzionato a pieno ritmo, imbrigliando le stesse componenti di Hamas dell’Interno, quelle impegnate nella esperienza di governo dell’ANP, e che sottoscrivendo il cosiddetto “Documento dei prigionieri” insieme a Al Fatah avevano in sostanza espresso una certa disponibilità al rilancio della iniziativa negoziale.
Un aspetto particolare ma non secondario della questione è dato dal fatto che le Fattorie di Shebaa, i pochi chilometri quadrati di terreno rimasti sotto controllo israeliano ma la cui sovranità è rivendicata da parte libanese, e che sono la base delle rivendicazioni con cui Hezbollah motiva la prosecuzione della lotta contro Israele, anche dopo il suo ritiro, non sono oggetto di rivendicazione territoriale da parte di Israele, che ne attribuisce la sovranità alla Siria, come anche l’ONU.
Shebaa rappresenta, in sostanza, l’oggetto di un contenzioso interarabo, la cui persistenza costituisce l’innesco per continuare la lotta contro il nemico sionista.
Lo squilibrio iniziale della posizione europea e italiana è stato in larga misura corretto durante il G8, ripristinando una corretta gerarchia di valori e di tempi, tra rilascio dei rapiti israeliani, la fine dei lanci di razzi sul territorio israeliano, la denuncia delle responsabilità primarie di Hezbollah e la moderazione richiesta ad Israele nell’esercizio del diritto di autodifesa.
A questo proposito, la proposta, avanzata da Blair, Prodi e Kofi Annan, e fatta propria dal G8, per lo schieramento di una forza di interposizione ONU lungo il confine con il Libano, con la creazione di una zona cuscinetto, appare di grande rilievo, ed è stata accolta non ostilmente da Israele, purché essa assuma un carattere non permanente.
Sarebbe interessante verificare se non sia possibile porre anche le fattorie di Shebaa, quel lembo di terra conteso, sotto il controllo ONU o anche sotto quello congiunto ONU – Lega Araba, in modo da azzerare definitivamente ogni motivo di contenzioso.
Quello che è certo, è che dalla crisi attuale non si esce con un puro e semplice ritorno allo status quo ante, ma dando risposte concrete ai punti essenziali di tensione che hanno fatto esplodere la crisi, e cioè la pressione di una milizia armata irregolare ai confini con il Libano e una formazione, Hamas, che non riesce a scegliere tra la sua anima di formazione terroristica fondamentalistica e la sua recente vocazione di Partito di governo.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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