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L’Analisi

Gli equilibri precari di Abu Mazen

di Ugo Tramballi

Data pubblicazione: 14 dicembre 2005

«Adesso, proprio adesso, mentre siamo seduti qui, le organizzazioni terroristiche palestinesi stanno cercando di far entrare in Israele cinque kamikaze», aveva detto Shaul Mofaz a Hosni Mubarak. Nel suo studio a palazzo al-Ittihaddiyya, al Cairo, il presidente egiziano aveva sorriso con stupore, ascoltando il ministro della Difesa israeliano venuto a trovarlo. Erano le 10.30 del mattino del 26 ottobre. Cinque ore più tardi al mercato di Hadera un attentatore suicida uccideva cinque civili israeliani. Il giorno dopo, tornato a Tel Aviv, Mofaz aveva confidato le sue preoccupazioni politiche a Shimon Shiffer, politologo di punta dello Yedioth Ahronot: «Non sono per niente sicuro che riusciremo mai a raggiungere un accordo di pace con l’attuale leadership palestinese. Dovremo attendere la prossima generazione.
Nel frattempo, il massimo che ci possiamo aspettare è un altro accordo momentaneo». Uno Stato palestinese, un accordo sullo status finale?, aveva insistito Shimon. «No, questo non ci sarà per diversi anni».

Se Shaul Mofaz è credibile – e probabilmente lo è, essendo il candidato più probabile alla successione a Sharon, se mai un giorno il vecchio generale andrà in pensione – chiunque s’interessa a vario titolo del conflitto fra israeliani e palestinesi può prendersi una lunga vacanza o cambiare mestiere: negoziatori, diplomatici, accademici, giornalisti. Tutto lascia credere che ci sarà da lavorare solo per i militari e i becchini. Le parole di Mofaz interpretano la delusione del vertice israeliano verso Mahmud Abbas: incapace di cogliere l’occasione di Gaza libera, di imporre l’ordine costituito e nemmeno di garantire una tregua che in fondo c’era già. In realtà solo l’Amministrazione americana aveva giocato tutte le sue carte locali su Abu Mazen, nom de guerre di Abbas, vendendolo nella regione come l’uomo del destino palestinese. Le elezioni presidenziali dello scorso gennaio non erano ancora incominciate che già l’imminente vincitore era chiamato col nome che ancora si porta dietro: «leader di transizione», cioè capo dalle scarse prospettive, capitano da diporto.

Non sono ancora passati tre mesi dalla liberazione di Gaza che le speranze di ordine e ricostruzione sono svanite. Obiettivamente non era facile disarmare Hamas, ma l’Autorità palestinese non è riuscita a togliere i Kalashnikov nemmeno alle bande più piccole di quartiere. Alcune settimane fa a Khan Yunis e Gaza città venivano quasi liberamente distribuiti dei volantini per spiegare come doveva essere rispettato il digiuno del Ramadan, firmati da al-Qaida e Jihad islamica. Sarebbe ingiusto addossare tutte le respondabilità ad Abu Mazen e all’Autorità palestinese. Eccetto il ritiro delle colonie e delle basi militari dalla striscia di Gaza, Israele non ha fatto nulla per aiutare il suo difficile lavoro di ricostruzione. La polizia palestinese resta poco e male armata; dopo le prime recrudescenze del terrorismo palestinese, i militari israeliani hanno ripreso i bombardamenti usando cannoni e aerei,
sono ricominciati gli omicidi mirati, lasciando poco margine all’Autorità palestinese per cercare di fare qualcosa.

L’approccio israeliano è quello solito: unilaterale e poliziesco. Tuttavia, anche tutte queste solide attenuanti non giustificano lo stato di semi-paralisi del governo di Abu Mazen. Il presidente è tornato dalla visita alla Casa Bianca con un successo significativo: ora gli Usa non si oppongono più alla partecipazione di Hamas alle elezioni legislative del 25 gennaio. Ma questo significa anche che il movimento islamico sarà ancora più libero di fare la sua propaganda e di conquistare seggi. Difficile che vinca ma molto probabile che diventi la seconda forza parlamentare palestinese. Il problema per Abu Mazen, per i palestinesi, per gli israeliani e per il futuro del processo di pace, è capire se la debolezza del capo e della sua amministrazione siano solo una questione generazionale: il «leader di transizione». O se il problema sia piuttosto Fatah, il grande partito, la Dc palestinese nella quale sono sempre confluiti e continuano a farlo, una ventina di posizioni diverse dal pacifismo al terrorismo, dal partito della trattativa a quello del rifiuto,
dallo Stato secolare a quello islamico, dalla borghesia di Ramallah ai contadini di Hebron.

I palestinesi spiegavano una quindicina d’anni fa Baruch Kimmerling e Joel Migdal in un libro dalla portata storica che fece conoscere quel popolo agli israeliani (“Palestinians”, The Free Press, New York 1993), sono una varietà di gruppi dagli interessi spesso in conflitto, che mantengono fra loro un precario equilibrio di potere. Quegli equilibri e quelle precarietà, Fatah le rappresenta tutte. C’erano ai tempi di Arafat che alla fine riusciva a riassumerle; sono esplose in questi anni di Abu Mazen, troppo debole e senza “storia” per governarle.

NOTE SULL'AUTORE 

Ugo Tramballi

Inviato speciale de Il Sole 24 Ore e responsabile del blog http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/ 

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