Home ≫ ANALISI

L’Analisi

“Deislamizziamo” la questione islamica

di Silvio Ferrari

Data pubblicazione:9 gennaio 2007

Molti sostengono la teoria di un’dentità inquieta dell’Islam in Europa. Ma forse, più che di identità inquieta, si dovrebbe parlare di identità in trasformazione dell’Europa o di identità inquieta perché in trasformazione. I musulmani, e non solo loro, sono in Europa per restarci e penso che l’unico modo costruttivo per affrontare il problema sia quello di includerli nell’identità europea: il che vuol dire accettare l’idea che tanto l’identità dei musulmani che arrivano qui quanto quella degli europei che vi abitano venga trasformata da questo incontro non programmato, forse neanche desiderato, ma reale e da cui bisogna trarre tutto il bene possibile. Infatti, la storia ci insegna che, quando una civiltà, anche splendida, si chiude in se stessa per salvaguardare la sua perfezione, come è accaduto a Bisanzio, finisce per morire: il futuro dell’area mediterranea non è stato Bisanzio, è stato l’Europa, dove la civiltà romana in un certo senso è morta ed è rinata nell’incontro con quella germanica dei “barbari”.
La prima cosa da fare per affrontare la questione islamica credo sia “de-islamizzarla”, ossia rendersi conto che si tratta di un problema che non è specifico dell’islam ma è comune a tutte le minoranze religiose e culturali di questo Paese e come tale va gestito.
In altre parole è necessario, come mi porta a fare la mia mentalità di giurista, affrontare i problemi con una buona dose di pragmatismo, rimuovendo i parametri ideologici e provando a ragionare sui fatti. Si potrebbe iniziare riprendendo il progetto di legge sulla libertà religiosa che da quasi tre lustri giace nelle aule del Parlamento e che il nuovo governo sembra intenzionato a togliere dall’oblio in cui era caduto. Può essere utile per due motivi almeno: primo, per affrontare tutta una serie di problemi, che vanno dall’apertura dei luoghi di culto all’assistenza religiosa negli ospedali e nelle carceri, in un’ottica di definizione dei diritti e doveri che riguardano tutti i cittadini e tutti i residenti in Italia; secondo, perché la legge sulla libertà religiosa può servire da utile sperimentazione in vista della successiva stipulazione di un’intesa con le diverse comunità.
Vorrei fare un paio di esempi che spieghino l’utilità, non solo in Italia ma in tutti i paesi europei, di questo approccio pragmatico.
Il primo riguarda la costruzione delle moschee.
I giornali hanno dato la notizia che a Colle Val D’Elsa, dove il Comune progetta la costruzione di una moschea, è stato indetto un referendum per conoscere l’opinione degli abitanti. Non è un’iniziativa che mi entusiasma. Il diritto di avere un luogo di culto, cioè un luogo dove riunirsi per pregare, è parte del diritto di libertà religiosa che è riconosciuto dall’art. 19 della nostra Costituzione a tutti, cittadini e non cittadini, e va garantito come diritto fondamentale della persona umana: tutte le minoranze religiose -non solo i musulmani, ma anche i testimoni di Geova, gli evangelici e via dicendo-  troverebbero difficoltà ad aprire la moschea, il tempio o la casa di preghiera se questa apertura divenisse condizionata all’autorizzazione di una maggioranza di cittadini. È preferibile la legislazione già in vigore, secondo cui i comuni devono prevedere, nei piani regolatori, aree per la costruzione di edifici di culto che verranno poi distribuiti in relazione alle esigenze religiose della popolazione.
Tutto ciò non equivale a dire che la costruzione delle moschee non pone problemi: ma essi possono venire affrontati e risolti sulla base delle leggi già in vigore.
Si obietta per esempio che la moschea non è soltanto un luogo di preghiera, perché accanto ad essa sorgono sovente anche un centro culturale, una biblioteca e perfino una macelleria dove si vende la carne halal. Ma a ben guardare lo stesso accade nella nostra tradizione religiosa: di fianco alla chiesa c’è l’oratorio o la sede di associazioni culturali o assistenziali. Si obietta anche –e giustamente- che la moschea è talvolta divenuta il centro di attività ostili allo Stato. Ma se nelle moschee si incita all’odio religioso o si reclutano volontari per azioni terroristiche, questi atti vanno trattati come questioni di sicurezza e come tali affrontate. Ormai da secoli le moschee, come le chiese, le sinagoghe e tutti gli altri luoghi di culto hanno perduto quella che un tempo si chiamava “immunità reale”, cioè l’esenzione dall’intervento della forza pubblica.
Il secondo problema di attualità è l’insegnamento della religione musulmana nella scuola. Impartire questo insegnamento è fondamentale per rendere la scuola pubblica più capace di rispondere alle esigenze degli studenti musulmani che la frequentano, allo scopo di favorire la loro integrazione nella società e di evitare derive verso scuole private, legittime ma non sempre altrettanto adatte a questo scopo. Se su questa premessa c’è un accordo abbastanza largo, allora la domanda è: dove sono gli insegnanti di religione musulmana? Chi forma questi insegnanti? Dove sono i libri di testo? Non si può improvvisare un insegnamento dell’islam nelle scuole italiane, a meno di non voler ripetere le esperienze negative che sono già state compiute in Austria, Belgio, Germania, importando dai paesi arabi insegnanti di religione musulmana che poco o nulla sanno del paese dove vanno a insegnare, e che quindi non sono in grado di aiutare i loro studenti ad integrarvisi. Questi tentativi sono tutti falliti e non vedo perché in Italia dovremmo prendere questa direzione che è senza speranze di successo. È invece urgente avviare un progetto di preparazione degli insegnati musulmani: non è impossibile, bastano due o tre università che operino in collaborazione con le associazioni musulmane e comincino ad organizzare dei programmi di formazione per insegnanti della religione islamica nelle nostre scuole.
Però questo insegnamento non può essere impartito senza che ci sia un’intesa tra lo Stato e la comunità religiosa musulmana. Questo è implicito nell’art. 8 della nostra Costituzione. L’insegnamento della religione fa parte dell’autonomia delle comunità religiose: nel nostro sistema giuridico, soltanto esse possono insegnare la propria religione, e non lo Stato italiano, chiamato solo a fornire la struttura organizzativa e, eventualmente, a pagare gli insegnanti. Da qui nasce un ulteriore domanda: con chi lo Stato italiano può stipulare questo accordo, chi sono i rappresentanti delle comunità musulmane esistenti in Italia?
Questa domanda ci introduce al tema della Consulta islamica, istituita non molto tempo fa dall’allora Ministro degli Interni, Giuseppe Pisanu. La Consulta islamica è un organismo atipico, ma potenzialmente utile. È atipico perché il nostro ordinamento giuridico non prevede che sia il Governo o un Ministro a nominare l’ente rappresentativo di una comunità religiosa: questo dovrebbe invece emergere dalla comunità religiosa stessa che, dotandosi di organismi rappresentativi e di proprie istituzioni, esercita la propria autonomia.
Ma un po’ in tutta Europa (si pensi alla Francia, al Belgio o alla Spagna) le istituzioni statali  sono intervenute per favorire l’emergere di organismi rappresentativi musulmani perché lo Stato aveva bisogno di avere un interlocutore. Questa è l’utilità della Consulta anche se, va aggiunto, questa utilità è ancora allo stato potenziale. Infatti non è ancora del tutto chiara la direzione che la Consulta islamica finirà per prendere, viste le spaccature che si sono rapidamente create al suo interno. Personalmente, non credo che essa abbia il compito primario di dirci se Israele deve esistere o no, se la guerra in Iraq è giusta o sbagliata, se è bene o male che l’Iran abbia la bomba atomica. Non è questo il suo compito, bensì quello di costituire il luogo dove si cerca di dare soluzione ai problemi concreti dei musulmani che vivono in Italia: cioè dove si parla di costruzione delle moschee, di alimentazione nel rispetto dei principi religiosi nelle mense scolastiche, di macellazione rituale, di momenti di preghiera sul luogo di lavoro ecc.
Credo che questi tre esempi bastino per spiegare cosa si intende con l’invito a “de-islamizzare” la questione dell’Islam. La presenza musulmana in Italia o in Europa non è qualcosa di rivoluzionario, non ci costringe a scardinare il nostro ordinamento giuridico. Esistono già gli strumenti giuridici necessari per affrontare questi problemi in maniera adeguata e razionale, sia quelli che attengono alla sicurezza che quelli provocati dalle diversità culturali e di costume. Questo approccio pragmatico farà sì che non ci si faccia dominare da questi temi, che non si pensi che tutti i musulmani sono terroristi perché qualche musulmano lo è e che tutti i musulmani sono maschilisti perché qualche musulmano lo è. Non serve ingigantire i problemi: al contrario bisogna cercare di ridurli e avviarli con pazienza, ma con determinazione, verso la loro soluzione. Grazie.

NOTE SULL'AUTORE 

Silvio Ferrari

Docente nelle Università di Milano e Lovanio.

Leggi tutte le ANALISI