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L’Analisi

Le ambizioni dell’Iran

di Bijan Zarmandili

Data pubblicazione:16 maggio 2007

Un quadro in costante mutamento ha caratterizzato nel corso degli ultimi anni le posizioni della comunità internazionale nei confronti della Repubblica islamica iraniana. Un blocco eterogeneo (Russia, Cina, Europa), pur nella diffidenza sostanziale, ha tuttavia optato per il dialogo e per il compromesso negoziale con Teheran, mentre un altro (Usa e Israele) è rimasto sulla rigida posizione dell’isolamento del regime iraniano, si è adoperato per il cambiamento del suo sistema politico e costituzionale e ha preparato piani sempre più dettagliati in direzione di una soluzione militare del “caso iraniano” Il resto della comunità internazionale, con l’eccezione della Siria, ha oscillato tra questi due blocchi, senza però riuscire a determinare una svolta tangibile della situazione odierna.

L’insieme di tali atteggiamenti è stato comunque spesso viziato da una convinzione praticamente rimasta intatta dalla nascita della Repubblica islamica: quella della sua immobilità, del suo sistema statico e immodificabile, da sempre uguale a se stesso, malgrado la presenza di anime contrapposte in seno al regime iraniano e di progetti diversi per il suo futuro. Il “caso iraniano” oggi è tuttavia strettamente legato alle dinamiche in atto nel paese sulla collocazione geopolitica e geostrategica della Repubblica islamica, materia su cui è in corso nei palazzi di potere a Teheran un animato e aspro dibattito, spesso poco filtrato all’esterno.

In proposito, il comandante delle forze aeree del corpo dei Pasdaran, Hussein Salami, usa un linguaggio apparentemente approssimativo, ma nella sua analisi della collocazione della Repubblica islamica iraniana nel contesto mediorientale e in quello internazionale si riflettono comunque verità, speranze e illusioni, ma anche dei mutamenti verificatisi nel regime iraniano con l’arrivo di Mahmud Ahmadinejad al vertice della Repubblica islamica, proiettata verso la prospettiva di potenza regionale e dotata di mezzi e strumenti idonei a quel ruolo, compresa la tecnologia nucleare.

Senza mezzi termini Salami afferma che l’Iran, nel caso di pericolo, è in grado di provocare una situazione di caos e di instabilità globale in tutto il mondo. Chiudendo lo stretto di Hormoz, nel Golfo persico, intanto, sarebbe in grado di bloccare il passaggio di almeno il 60 per cento del greggio prodotto nella regione: “L’intero mondo diverrebbe a quel punto un inverno gelido”, ha detto nel corso di una lunga intervista con l’agenzia iraniana Fars lo scorso 2 febbraio.

Ciò, a suo avviso, produrrebbe instabilità nel commercio internazionale e lo shock economico potrebbe divenire fatale per la sorte delle grandi potenze. Salami vanta anche una capacità non indifferente a livello militare per le forze armate del suo paese esibendo missili in grado di colpire il nemico “in un raggio indefinito”.

Il determinante peso strategico iraniano viene poi esposto in dettaglio nei confronti dell’Iraq, del Libano, dei territori palestinesi e dell’Afghansitan, “dove sono oggi concentrati i maggiori conflitti dopo la caduta dell’ex Unione sovietica”.

Nella sua visione geostrategica, l’alto ufficiale dei Pasdaran ricorda la preminenza della Repubblica islamica sia nel Medioriente che nel modo islamico, ma fornisce anche una sua interpretazione della geopolitica: “Tutto ciò non avrebbe alcun senso se non fosse sorretto da una profonda volontà e identità nazionale”. Il nazionalismo, quindi, come collante di qualsiasi politica estera e come fattore imprescindibile per ottenere lo status di potenza regionale a cui mirano i dirigenti politici e militari dell’Iran.

In più occasioni, da quando Ahmadinejad e i suoi uomini hanno preso in mano le redini del potere in Iran, viene sottolineato che il tramonto della potenza americana e le sue odierne difficoltà di gestire la propria espansione sono strettamente legate all’emergere di nuove potenze planetarie come la Cina e l’India – e aggiungendone poi  una terza, ipotetica e virtuale, il “Mondo islamico”, rendendo così esplicita l’inconfessabile ambizione d’includere la Repubblica islamica iraniana nell’Olimpo dei futuri dominatori. Il sogno sarebbe quello di far scendere a Teheran in un futuro non lontano il treno che è già partito da Pekino e che sta raggiungendo Nuova Dehli.

Un’attenzione prevalente, insomma, nei confronti del continente asiatico, verso il quale, secondo gli analisti della nuova leadership iraniana, si sta spostando l’asse delle potenze mondiali dopo la caduta del muro e la progressiva debolezza statunitense. In altre parole: l’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico (tra l’Europa occidentale e gli Stati Uniti) che per mezzo secolo ha tenuto testa alla superpotenza sovietica, conclusa con la sconfitta quest’ ultima, è ora sostituita dall’incremento delle rivalità tra le due sponde del Pacifico, tra l’America e l’Asia.

Non a caso, una delle prime indicazioni impartite dal governo di Ahmadinejad nell’ambito della politica estera è stata quella di procedere con una maggiore diffidenza nei confronti degli europei, fino allora, in particolare negli otto anni della presidenza di Mohammad Khatami, considerati invece interlocutori privilegiati (dialogo critico), se non addirittura potenziali mediatori tra Teheran e Washington durante le fasi più calde del loro scontro. Tele diffidenza si è infatti tradotta immediatamente nell’ uscita di scena della troika Inghilterra-Gremania-Francia che per un paio di anni aveva lavorato fianco a fianco con la diplomazia iraniana per cercare una soluzione negoziale della crisi nucleare.

“Gli europei, nel momento decisivo, difendono gli interessi americani, non i nostri”, dicevano i diplomatici iraniani, facendo capire che per affermare il diritto dell’Iran alla tecnologia nucleare c’è bisogno di un alleato in grado di tenere testa agli Stati Uniti fuori e in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, un alleato al livello della Cina, oppure della Russia, che godono del diritto al veto e che non hanno lo stesso interesse degli Stati Uniti a ostacolare la crescita strategica della Repubblica islamica (qualcosa di simile al modello adottato dalla Corea del nord).

L’offensiva sul nucleare, dunque, come emblema di una politica estera complessiva, basata sull’affermazione di diritti nazionali irrinunciabili, ma anche come il punto più avanzato di una aggressiva vivacità e costante presenza su tutti i teatri della conflittualità mondiale, nel Golfo persico e nel Medioriente, in primo luogo. Da qui ad una interferenza palese nella guerra irachena a fianco della componente sciita, nella guerra dello scorso luglio-agosto tra il Libano e Israele, a difesa degli Hezbollah, nel conflitto israelo-palestinese, in appoggio ad Hamas e, con metodi meno espliciti, nella guerra afgana la strada è stata breve, fino ad esporre la stessa Repubblica islamica all’eventualità di un attacco militare americano (o israeliano).

A scatenare di nuovo un duro scontro tra le diverse anime del regime islamico in Iran  è infatti quest’ultima eventualità: la guerra. La notizia del pericolo di un raid aereo contro le installazioni nucleari e i centri nevralgici della sicurezza e dell’economia della Repubblica islamica, filtrata attraverso numerose indiscrezioni messe a disposizione dei media dalla Cia, dal Pentagono e dai servizi israeliani, ha prodotto un’ inquietudine profonda tra la popolazione, ma innanzitutto ha prodotto divergenze e tensioni tra la presidenza iraniana e diverse personalità della teocrazia sciita, preoccupata delle nefaste conseguenze della politica aggressiva di Ahmadinejad e della sua idea di collocare l’Iran nella regione e nel mondo con le funzioni di una potenza emergente.

L’acuirsi dello scontro tra l’ala nazional-militarista del regime, guidata dal vertice dei Pasdaran e dal presidente Ahmadinejad, e quella della teocrazia, rafforzata da un ravvicinamento tra il pragmatico Rafsanjani, il riformista Khatami e il conservatore Khamenei, è dovuto, tra l’altro, al fallimento perlomeno parziale della scelta della Cina e della Russia come garanti e come sostenitori impliciti dell’ascesa dell’Iran a livello di potenza regionale e delle sue opzioni nucleari, ma anche di qualche modifica, forse tattica, dello stesso atteggiamento della Casa Bianca nei confronti della questione iraniana.

Sin dal 2006, puntualmente ad ogni incontro decisivo del 5+1 (le cinque potenze del Consiglio di sicurezza, più la Germania) sul nucleare iraniano, sia Mosca che Pekino hanno votato insieme agli occidentali le diverse fasi delle sanzioni imposte all’Iran, pur cercando attenuarne la portata e le conseguenze. Per l’Iran non si è verificata certamente l’esperienza della Corea del nord, che ha goduto di una sostegno sostanziale della Cina nel corso del suo scontro con gli Usa.

Teheran, delusa da Pechino e da Mosca, è messa ora di fronte ad una scelta decisiva, dovuta al mutamento di alcuni aspetti della politica americana nella regione mediorientale e nell’Iraq, complice di tale cambiamento una parte dei paesi arabi, a cominciare dall’Arabia sudita. Nel recente vertice arabo a Riad (dopo la mediazione saudita tra Hamas e il presidente palestinese Abu Mazen) è risultato sostanzialmente condiviso il piano saudita per la pace nel Medioriente (riconoscimento dello Stato d’Israele in cambio del suo ritiro entro i confini del 1967) e ha attirato le attenzioni israeliane e americane, neutralizzando innanzitutto l’influenza degli iraniani presso l’ala radicale del movimento palestinese. Ma, accettando un approccio multilaterale verso il conflitto iracheno con il vertice a Sharm el-Skeikh, l’amministrazione americana ha cercato di indebolire l’asse tra Damasco e Teheran, che fin qui ha svolto un ruolo decisivo per la politica dell’Iran sia in Libano che in Iraq.

La controffensiva diplomatica americana nella regione non esclude, intanto, neppure un contatto diretto con gli iraniani, provocando non poche conseguenze in seno allo stesso regime islamico iraniano. Siamo però all’inizio di una nuova fase, con delle prospettive assai incerte, anche se difficilmente possiamo ipotizzare per il momento un arretramento cospicuo da parte del presidente Ahmadinejad e del vertice dei Pasdaran dalle proprie posizioni, che continuano a pretendere un ruolo dominante per la Repubblica islamica sia nella dialettica regionale che in quella mondiale.

NOTE SULL'AUTORE 

Bijan Zarmandili

Nato a Teheran, è giornalista e scrittore. 

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