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L’Analisi

La pace sarebbe possibile in sei mesi

di Eric Salerno

Data pubblicazione: 5 luglio 2007

A poche settimane dal “golpe” di Hamas a Gaza, è sempre più evidente, ascoltando non tanto le dichiarazioni pubbliche dei responsabili islamici e di Fatah ma soprattutto il comportamento dei leader arabi moderati – Giordania, Egitto e Arabia saudita, in primo piano – e la realtà nei territori palestinesi, che prima o poi riscoppierà la guerra civile se le diverse componenti della società palestinese non troveranno un compromesso. Si può realisticamente parlare di Mecca Due, o qualcosa di simile, di un altro governo d’unità, quando la comunità internazionale minaccia di togliere ad Abbas il sostegno appena promesso se dovesse tornare a stringere la mano a Hamas? Si può pensare allo sviluppo separato di Cisgiordania rispetto alla striscia di Gaza? Abu Mazen, debole, poco credibile e privo ormai di un vero sostegno popolare può sopravvivere a un’operazione voluta da Israele e Stati Uniti e sostenuta dall’Unione europea, senza avere, tra le mani, un piatto forte da offrire alla sua gente, ossia la creazione di uno stato palestinese nei territori occupati con Gerusalemme Est capitale e una soluzione equa, concordata, della questione dei rifugiati? La risposta a questi tre interrogativi è sempre “no”.
A quaranta anni dalla guerra dei sei giorni, il quadro è desolante. Gli israeliani continuano a costruire negli insediamenti, ad allargare e allungare le strade riservate ai coloni, a chiudere i varchi nel Muro, a parlare di pace ma a minare, nei fatti, le basi stesse di un eventuale accordo. La maggioranza dei palestinesi è nata sotto occupazione ed è assurdo pretendere da questa massa di giovani arrabbiati, frustrati, disperati, che vedono stringersi sempre più i loro spazi vitali, di ragionare in termini razionali, di essere “moderati”. L’odio prevale e con l’odio avanza l’estremismo.
In Israele, in questi giorni, si sentono le solite valutazioni e considerazioni: Abbas è troppo debole, dunque inutile negoziare con lui; Olmert è troppo debole, non può fare concessioni; Iran e al-Qaeda sono alle porte e vanno radicate; la guerra, quale non è sempre chiaro, ci sarà ed è soltanto questione di quando; guardiamo con interesse l’iniziativa saudita, il piano di pace approvato dalla Lega araba sei anni fa e rilanciato lo scorso inverno ma i leader arabi dovrebbero venire qua a convincerci della loro buona volontà; bisogna negoziare con la Siria e con i palestinesi ma è assurdo pensare, in mancanza di un leader israeliano forte, di poter chiudere un accordo con entrambe; forse l’Egitto si prenderà cura di Gaza e la Giordania ingloberà la Cisgiordania in una confederazione. E così via. Nomi diversi, quelli dei leader, circostanze diverse, ma ragionamenti, chiamiamoli così, vecchi di decenni. Ascoltandoli, si rischia di pensare che forse Israele (i suoi leader, i decision-makers) non è disposta a pagare il prezzo di una pace duratura con i palestinesi.
Sarebbe da ingenui non riconoscere che una soluzione, all’epoca d’Oslo, poteva essere più facile. Non capire l’errore di allora quando le parti, non sfruttarono l’atmosfera di speranza per negoziare rapidamente un accordo sullo status finale della Palestina. In compenso, però, per Israele tutti i tabù di questo conflitto sono stati abbattuti: dalla stretta di mano a un leader palestinese alla demolizione degli insediamenti, a negoziati (come quelli seppure troppo cauti di Barak a Camp David) per condividere Gerusalemme, all’ipotesi discussa e quasi concordata sempre con Barak di restituire il Golan alla Siria. E, dall’altra parte, il mondo arabo nel suo insieme ha compiuto un gigantesco passo dal rifiuto totale d’Israele per offrire non soltanto il formale riconoscimento dello Stato nato quasi sessanta anni fa ma anche la normalizzazione dei rapporti.
Condoleeza Rice ha suggerito a Olmert di arrivare rapidamente a un accordo con Mahmoud Abbas e di lasciarlo riposare nell’attesa di maggiore stabilità: un’altra formula di disastro come quella d’Oslo. E il presidente palestinese n’è pienamente consapevole. La polarizzazione della sua società è palese. E vi sono soltanto due poli: il primo racchiude la lotta armata, disperata e fallimentare come sappiamo, come sanno la maggioranza dei palestinesi; il secondo deve essere non più una vaga speranza ma una realtà di pace e convivenza. Saeb Erekat, il capo negoziatore palestinese, uomo di Fatah, ha più volte ribadito: Se cominciamo a negoziare seriamente, sono sufficienti meno di sei mesi per mettere a punto un piano di pace superando tutti gli ostacoli, compreso quello dei rifugiati e di Gerusalemme e per cominciare ad attuarlo. Se a fianco d’Abbas ed Erekat, nel team negoziale palestinese, ci fosse anche Marwan Barghouti, leader di Fatah in carcere in Israele ed esponente di punta della nuova generazione, ogni intesa concordata a tavolino sarebbe ancora più credibile, appetibile, per il grande pubblico palestinese, quella maggioranza silenziosa che ha votato Hamas per protestare contro la corruzione e gli insuccessi della vecchia, stanca leadership del movimento storico cresciuto con e a fianco d’Arafat. A quel punto, gli estremisti palestinesi difficilmente riuscirebbero a vincere elezioni nuove, un referendum. E la maggioranza degli israeliani, stanchi ancora loro, troverebbero il modo di isolare per sempre coloro che armarono la mano dell’assassino di Yitzhak Rabin, i teorici nazional-religiosi della “grande Israele”, pericolosi non meno degli ultrà di Hamas.
Per non apparire “ottimisti” disegnando, oggi, l’ennesimo esempio di pace israelo-palestinese possibile, è necessario aggiungere una considerazione.
È difficile pensare alla riuscita duratura di una pace separata, ossia senza un accordo parallelo tra Israele e Siria e dunque, quella stretta di mano offerta dalla Lega araba.

NOTE SULL'AUTORE 

Eric Salerno

Giornalista, inviato speciale, esperto di questioni africane e mediorientali, è corrispondente de Il Messaggero. Con il Saggiatore ha pubblicato Uccideteli tutti! (2008), Mossad base Italia (2010), Rossi a Manhattan (2013) e a marzo 2016, Intrigo.

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