Analisi di Ali Haidar

Un richiamo per la liberazione e per il dialogo

Data pubblicazione: 26 maggio 2008

Il popolo palestinese e la minoranza palestinese in Israele hanno appena commemorato i 60 anni dalla “Naqba” scaturita dagli esiti della prima guerra arabo israeliana del 1948. Questo evento ha avuto un importante significato sia da un punto di vista simbolico che pratico dal momento che la “Naqba” ha ripercussioni durissime sulla vita quotidiana di tutto il popolo palestinese: sia sui palestinesi che vivono sotto occupazione nei territori conquistati da Israele nel 1967, sia su coloro che vivono come rifugiati, sia su coloro che sono rimasti nella loro patria e vivono una situazione di discriminazione, delegittimazione e razzismo a causa della maggioranza della popolazione.

Un anno fa, i palestinesi in Israele hanno pubblicato quattro documenti essenziali e importantissimi. Il Centro “Adallah” ha pubblicato un suggerimento per «una costituzione democratica» che tragga ispirazione, come scrivono i suoi autori già nel preambolo, «ai principi internazionali, ai convegni internazionali sui diritti umani, all’esperienza dei popoli e delle costituzioni degli altri paesi». Questo suggerimento ben si concilia con il secondo documento incentrato sulla «visione futura degli arabi palestinesi in Israele» e sviluppato da un gruppo di intellettuali, attivisti, a capo di enti locali e altre personalità. Quest’ultimo documento è poi stato pubblicato dal Presidente del Comitato Superiore di Seguito degli Arabi-Israeliani, con la sponsorizzazione della Commissione degli Enti Locali Arabi, entrambi sono due istituti rappresentativi che godono di una vasta legittimità popolare. In Gli ultimi due documenti sono “La Dichiarazione di Haifa”, su iniziativa del Centro Mada, e “Una costituzione uguale per tutti” del Centro Adallah.

Dopo gli eventi dell’ottobre del 2000 (lo scoppio della seconda intifada), quando 13 dimostranti arabi furono uccisi dai poliziotti israeliani, per i quali inoltre il Consulente Legale del Governo ha recentemente deciso di chiudere le indagini per insufficienza di prove, i rapporti tra la minoranza palestinese da un lato e lo stato e la maggioranza ebrea dall’ altro, attraversano gravi e ricorrenti crisi. Quotidianamente le relazioni tra le due componenti del paese devono affrontare momenti critici e difficili. In questo periodo sono state avviate diverse iniziative sintomatiche, come ad esempio la designazione del Comitato Lapid, che però si è limitato a discutere di eventualei implementazioni delle conclusioni raggiunte dal precedente Comitato Or, l’attivazione dei progetti nazionali per la “ebraizzazione” della Galilea e del Neghev, la definizione della legge sul Kakal che permette la vendita dei terreni soltanto agli ebrei.
Allo stesso tempo, si è registrato un aumento dell’estremismo e del razzismo nei confronti dei cittadini arabi, come dimostrato dai risultati dei frequenti sondaggi e dalle dichiarazioni dei leader politici e religiosi ebrei. Si può aggiungere inoltre la fondazione dell’Amministrazione per il Servizio Nazionale, il proseguimento della distruzione delle case nei villaggi arabi e, soprattutto nel Neghev, l’azione di disturbo nei confronti dei leader e degli attivisti politici arabi attraverso sondaggi e procedimenti legali.

Inoltre, “il piano di separazione dal Wadi Ara” con il suo obiettivo di rendere nulla la cittadinanza degli arabi che vivono in questa zona, ha trovato un forte appoggio da parte di politici e intellettuali israeliani, e non è stata neanche completamente negata dallo stesso Primo Ministro. Senza dimenticare poi che, durante la seconda guerra con il Libano, il governo israeliano ha completamente abbandonato i cittadini arabi, non fornendo gli aiuti necessari e i rifugi antibombe. Durante la guerra inoltre, il governo ha fatto approvare “la legge sulla cittadinanza” che nega la libertà dei cittadini arabi di scegliere con chi sposarsi. Infatti, il nome giusto di questa legge dovrebbe essere “la legge della non-cittadinanza”. La dichiarazione fatta dal direttore del servizio segreto (shabak), che i cittadini arabi costituiscono una minaccia strategica, mostra quanto grande è l’odio. In questa lista di misfatti va ora aggiunta anche la chiusura dei dossier di indagini relative ai poliziotti israeliani responsabili della strage del 2000. E la lista resta aperta.

Tornando ora ai documenti, i documenti sulla “visione futura degli arabi palestinesi in Israele” assumono una grande importanza in una prospettiva storica. Tramite questi, infatti, il popolo palestinese in Israele definisce la propria identità e le proprie aspirazioni in modo molto chiaro, diretto, senza ambiguità. Viene proposta una sfida alla maggioranza ebrea e allo stesso stato israeliano, suggerendo di stabilire principi comuni per regolare le relazioni tra di loro.
Questi documenti non nascono dalla disperazione o dal desiderio di allontanarsi, come spesso alcuni ebrei sostengono, sono invece il frutto di un passo coraggioso, consapevole e ben calcolato in cui la società araba si assume la responsabilità per se stessa ma anche per la società ebrea. I documenti si riferiscono alla democrazia come al regime desiderato, criticando poi lo status della maggioranza etnica ebraica che gode di maggiori privilegi rispetto alla minoranza indigeno-araba. Si rifiutano inoltre gli apparati di controllo, monitoraggio e oppressione che lo stato e la maggioranza ebrea adoperano contro la minoranza palestinese. Si afferma poi che i cittadini arabi considerano il concetto di cittadinanza nello stato moderno in modo con estrema serietà, provando a fornirgli un nuovo contenuto e un nuovo significato capace di assicurare diritti personali e comuni uguali, cancellando la gerarchia oggi esistente tra i cittadini.

I redattori dei documenti partono dall’assunto che la democrazia israeliana è molto debole e che esiste una contraddizione essenziale al suo interno, lì dove si definisce lo stato ebraico e democratico. Viene poi sottolineato come lo stato abbia sacrificato più volte la sua “democrazia procedurale” per difendere il suo “ebraismo essenziale”.

Indubbiamente, appena la minoranza contesta le convenzioni accettate dalla maggioranza, quest’ultima reagisce con ira, a volte fino ad arrivare alla violenza. Paulo Freire, il famoso educatore, sostiene che la relazione tra l’oppressore e l’oppresso è destinato a raggiungere un punto d’esplosione. Nel momento in cui l’oppresso si libera dalla paura avviene questa esplosione che, come conseguenza, porta con sé anche la liberazione dell’oppressore stesso. I documenti sopracitati possono essere letti, perciò, come un segno che precede la liberazione degli arabi dalla paura ma anche come un esplicito invito alla maggioranza ebrea e allo stato di liberarsi dalle vecchie concezioni e dai pregiudizi. È un invito dunque a prendere le distanze dalle concezioni che hanno aumentato l’alienazione, la discriminazione e evocato il razzismo, per adottare invece i principi di equità, libertà e giustizia.

È stato sconcertante sentire le reazioni dure e frettolose degli opinion leaders ebrei che hanno accolto la dichiarazione definendola una “dichiarazione di guerra”, oppure commentando che “[gli arabi] si sono dati la zappa sui piedi” o che “la società israeliana deve interiorizzare il pericolo della minoranza che aumenta sempre”.  La lista dei “preoccupati”, “inquietati” e “spaventati” cresce giorno per giorno. È importante ricordare, però, che reazioni simili si sono avute negli anni Sessanta, durante le lotte del Movimento per i Diritti Civili, negli Stati Uniti e negli anni Ottanta in Sud Africa. Per tanti anni i cittadini arabi hanno espresso le loro obiezioni e contestazioni contro questa realtà di esclusione, ma sono stati ignorati ed esclusi sistematicamente. Oggi, invece, gli arabi stanno rompendo il muro della coscienza, spostando “la nube enorme che nasconde il sole” e provando a far sentire la loro voce nella loro lingua nativa, espressione che è all’origine della loro stessa cultura, in questo modo compiendo un’azione di libertà per se stessi ma anche per gli altri.

Questi documenti, perciò, creano un’opportunità storica per la maggioranza e per lo stato ebraico per sviluppare un dialogo vero e sincero, che costruirebbe una responsabilità condivisa per il futuro, basandosi sulla collaborazione e sulla completa uguaglianza tra i due gruppi del nostro stato, e fondandosi sui principi internazionali d’equità, giustizia e libertà.

Parallelamente al processo di dialogo proposto, lo stato dovrebbe sviluppare un programma complessivo per affrontare le diverse difficoltà presenti nella vita dei cittadini arabi, in primo luogo dovrebbe dunque compiere passi operativi per combattere il razzismo e l’odio diretti verso i cittadini arabi.

NOTE SULL'AUTORE 

Ali Haidar

Politico siriano, guida del Partito nazionalista socialista siriano e dal giugno 2011 Ministro di Stato per gli Affari di Riconciliazione Nazionale.

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