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L’Analisi

Rivoluzioni arabe e modello turco

di Carlo Marsili

Data pubblicazione: 11 aprile 2011

Assistiamo in queste settimane ad una serie di eventi che stanno ridisegnando gli equilibri di potere nella sponda sud del Mediterraneo fino ad incidere sul Medio Oriente. Le posizioni dei vari attori internazionali sono diverse, ma quasi tutti concordano nell’attribuire alla Turchia un ruolo primario in questa complessa fase di transizione, tanto da parlare di “modello turco”. Un termine impegnativo, che fa riferimento alle aspirazioni di quella fetta del mondo arabo che si è rivoltata contro le autorità dei rispettivi paesi.

Per verificare la validità di tale impostazione è opportuno ripercorrere brevemente l’evoluzione della politica estera turca di questi anni, partendo dalla vittoria elettorale dell’AKP nel novembre 2002. Prima di allora, infatti, i governi di Ankara, sia pure con accenti diversi, erano sostanzialmente allineati alla politica estera americana.

Agli inizi degli anni Novanta, la Turchia poteva essere considerata uno dei beneficiari della fine della guerra fredda. Aveva visto sparire una minaccia alla propria sicurezza, rappresentata ai suoi confini dall’Unione Sovietica, e sembravano schiudersi interessanti prospettive di proiezione economica e culturale nelle nuove repubbliche centro-asiatiche e nella regione balcanica. Le prospettive di allargamento della NATO e dell’Unione Europea ai paesi dell’Europa orientale le conferivano una nuova finestra di opportunità in vista del suo avvicinamento all’Europa. Sulla frontiera sud-orientale, i maggiori problemi erano rappresentati dalla minaccia ideologica dell’Iran e dalle conseguenze della prima guerra del Golfo, con le loro ripercussioni sulla questione interna curda,ma la salda appartenenza della Turchia alla sfera di sicurezza occidentale consentiva di affrontare queste questioni senza ripercussioni particolarmente pesanti.
L’11 settembre e le sue conseguenze hanno brutalmente alterato il quadro, obbligando Ankara a confrontarsi non solo con un contesto regionale ancora più complesso e sfuggente, caratterizzato dall’intervento in Iraq, dall’arresto del processo di pace in Palestina e – a monte – dal tentativo di globalizzare lo scontro tra Islam e Occidente, perseguito dal terrorismo internazionale. La reazione degli Stati Uniti, volta a ridisegnare il quadro delle relazioni internazionali nel Medio Oriente allargato, ha avuto un impatto profondo sulla politica estera della Turchia, sostanzialmente soddisfatta dello status quo regionale, che ha dovuto rapidamente adattarsi ad una situazione in cui il suo principale alleato perseguiva invece con determinazione una politica di modifica degli equilibri. La dinamica dello scontro tra fondamentalismo islamico e Occidente era ed è esiziale per la Turchia, che si trova esattamente sulla linea di frontiera ed è esposta più di ogni altro paese alle conseguenze negative di questo conflitto.

La risposta immediata del governo turco al dilemma è stata efficace: il perseguimento con determinazione della prospettiva dell’adesione all’Unione Europea, che consentiva tra l’altro di realizzare riforme gradite al proprio elettorato attraverso l’ammorbidimento del rigido codice kemalista che informava la vita pubblica. La riduzione sia pure contingente della forza di attrazione europea, più che per responsabilità interna dovuta ai ripensamenti soprattutto franco-tedeschi, ha dato maggior spazio alle correnti di politica estera che inclinano a rafforzare il rapporto con il mondo mediorientale, facendo leva sugli interessi economici e le affinità religiose e culturali. Tali correnti sono state tempestivamente interpretate dal ministro degli esteri Davutoglu, insediatosi nel maggio 2009, che ha tradotto in pratica quanto aveva teorizzato qualche anno prima nel suo scritto “Profondità strategica”.

Quindi lo scenario internazionale della Turchia si amplia a dismisura, favorito da un’assertività turca basata anche sullo straordinario successo economico di questi anni, ormai secondo solo a quello cinese, verso quasi tutte le zone calde del pianeta.

E, dunque, un rinnovato attivismo nei Balcani, articolato su una combinazione di elementi tradizionali quali la difesa delle minoranze musulmane, l’integrità territoriale della Bosnia, l’appoggio alle aspirazioni di Kosovo, Montenegro, Macedonia e Albania, e scelte innovative quali l’intensificazione dei legami con Croazia e Slovenia, ma anche il riconoscimento del ruolo chiave della Serbia.

La trilaterale turco-afghano-pakistana è stata lanciata nel 2007 e sulla stessa linea si pone la disponibilità a partecipare all’operazione di pace in Libano nell’estate 2006 e il tentativo di mediazione effettuato tra 2007 e 2008 tra Siria e Israele.

Per quanto riguarda il Caucaso, a seguito del conflitto russo-georgiano in Ossezia del Sud, la Turchia ha inteso preservare le relazioni politico-energetiche con la Russia e salvaguardare i rapporti con la Georgia, attraverso cui passa l’unica alternativa al gas russo, l’oleodotto Baku-Tblisi- Ceyhan. Al tempo stesso lanciava l’iniziativa per la stabilità del Caucaso, all’indomani della crisi, in cui essa stessa, Russia, Georgia, Armenia e Azerbaycan dovevano esser coinvolte. Obiettivo complicato, perché presupponeva l’integrità territoriale della Georgia, la soluzione della disputa armeno-azera sul Nagorno Karabakh, senza contare altri due fattori quali la prospettiva presentata da Washington della candidatura della Georgia alla NATO, cui ha fatto da contrappeso il riconoscimento da parte della Russia dell’indipendenza dell’Ossezia del Sud e della Abhkazia.

Ha cercato di ricucire i rapporti con l’Armenia nel settembre 2008 con la diplomazia delle partite di calcio (visita di Gul a Yerevan su invito Sarkisian) fino a giungere alle intese di Zurigo dell’ottobre 2009, rimaste peraltro congelate per la mancata ratifica di entrambi i parlamenti turco e armeno per via dei nodi del riconoscimento dei confini, previsti dal trattato di Kars turco-sovietico del 1920, dell’insediamento di una commissione di storici per approfondire la tematica del c.d. genocidio, della mancata risoluzione del conflitto in Nagorno-Karabakh.

I rapporti con la Siria sono ottimi tanto da prospettare, dopo la crisi degli anni ’90, un meccanismo di libera circolazione delle merci e delle persone esteso a Giordania e Libano. Certo, suscita perplessità il rafforzamento delle relazioni con l’Iran e il voto contrario alle sanzioni in sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Qui entra in gioco la dogmatica determinazione di Davutoglu di azzerare i problemi con tutti i vicini, nonché i fortissimi interessi economici e commerciali tra i due Paesi. Intanto però al vertice NATO di Lisbona del novembre scorso la Turchia ha comunque aderito al nuovo concetto strategico dell’Alleanza assumendovi un ruolo chiave al suo interno. Le relazioni con Israele sono andate a fondo per i noti motivi che vanno dall’attacco a Gaza subito dopo la visita di Peres ad Ankara a quello alla flottiglia ivi diretta, e difficilmente potranno migliorare a breve termine anche se sono ripresi i contatti e l’interesse a normalizzare le relazioni bilaterali è reciproco.

I rapporti con gli USA, al di là delle rivelazioni di WikiLeaks, hanno naturalmente risentito di tutto ciò. Ma chiedersi oggi, come si fa a Washington e non solo, se l’Occidente abbia perduto la Turchia, è un errore. Il contesto globale è cambiato e ciò ha indotto Ankara ad individuare nuove priorità: bollare tutto come neo-ottomanesimo significa perdere di vista la realtà dei fatti. Esistono motivazioni politiche ed economiche che hanno spinto la Turchia ad adottare una nuova strategia regionale. Essa è tuttavia compatibile con il suo rapporto di alleanza con l’Occidente, anzi rappresenta una valenza in più per l’influenza stabilizzatrice nell’area.

Tutto ciò ci riporta all’attualità di questi giorni. Erdogan si propone nuovamente quale mediatore dei conflitti in corso, forte di un modello turco che ha saputo coniugare, nonostante le tensioni interne, laicità democratica e conservatorismo religioso. Quest’ultimo lo accredita presso le masse arabe e lo stesso mondo curdo-iracheno, di cui la sua visita a Barzani di fine marzo è stato un esempio significativo. La prima ne potenzia le credenziali presso l’Unione Europea, come dimostrato dalla considerazione per le posizioni espresse da Davutoglu sulla crisi libica il 30 marzo alla Conferenza di Londra.
In conclusione, si può certo discutere se e quanto la Turchia possa rappresentare un modello per i paesi islamici, ma certamente il suo ruolo di intelligente pompiere a fronte dei tanti focolai di incendio ci sembra essenziale.

NOTE SULL'AUTORE 

Carlo Marsili

Primo Vice Console a Monaco (1973-1975), Primo Segretario a Bangkok (1975-1978), Consigliere politico ad Ankara (1979-1981), Console Generale per la Scozia e Irlanda del Nord a Edimburgo (1984- 1988), vice consigliere diplomatico del primo ministro (1988-1993) e vice capo della missione in Germania (1993-1998). Successivamente Ambasciatore in Indonesia nel 1998, dal 2004 al 2010 è stato Ambasciatore in Turchia.

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