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L’Analisi

Effetto Erdogan

di Valeria Giannotta

Data pubblicazione: 5 novembre 2015

Una Fenice che rinasce dalle sue ceneri e un Lazzaro che si rialza e cammina. Questi sono gli epiteti che definiscono la nuova ascesa al potere del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), ma per il Primo Ministro Ahmet Davutğlu la riconferma elettorale del 1° Novembre è semplicemente la “vittoria della Nazione”. Nonostante le aspettative – avvallate anche dai sondaggi fiologovernativi secondo cui l’AKP avrebbe ottenuto un risultato simile a quello del 7 giugno scorso (41%) – il suo ritorno sulla scena politica come partito dominanate è stato accolto a furor di popolo. In quasi 5 mesi l’AKP è riuscito ad attrarre un aumento del consenso di oltre 8 punti percentuali (49.4%) e ottenere 317 seggi  nella Grande Assemblea Turca, un record che replica il risultato delle elezioni generali del 2011. Tuttavia, mentre il principale partito all’opposizione (CHP) riconferma la sua posizione di eterno secondo (25%) i nazionalisti del MHP e i curdi dell’HDP subiscono significative perdite, pur riuscendo a sorpassare la soglia di sbarramento e ottenere la rappresentanza in Parlamento. Le cause del drastico calo di consensi e del conseguente shift verso il bacino AKP sono sicuramente molteplici.

 

Innanzitutto, sin dal post 7 giugno il MHP e il suo leader Bahçeli hanno peccato di incoerenza e di un atteggiamento negativo verso qualsiasi apertura e offerta di collaborazione, corollario di una retorica ormai obsoleta che sicuramente non motiva gli elettori. Dall’altra estremita’ dello spettro, invece, l’HDP guidato da Selattin Demirtas paga il prezzo di essere rimasto eccessivamente silente riguardo i separatisti curdi del PKK. Inutile dire che Erdoğan ha sapientemente sfruttato queste debolezze per affinare la propria retorica nazionalista e stringere la morsa in chiave antiterroristica, attraendo cosi’ le simpatie dei settori curdi conservatori che, voltando le spalle all’HDP per poco non hanno contribuito ad accrescere il rischio di scivolare sotto la soglia del 10%.

 

In un tale contesto, mentre l’AKP ha costruito una campagna attorno allo slogan “Ben Yok Sen Yok Türkiye Var’ / Non sono io, Non sei tu, è la Turchia”, nessuno dei partiti all’opposizione – persuasi forse dall’immagine negativa che AKP e  Presidente hanno all’estero e sicuri della divisione di potere in termini governativi – ha presentato qualche nuova idea di mobilitazione sociale. Fermo restando l’importanza di questi fattori, l’elemento determinante la scelta degli elettori è sicuramente la forte esigenza di stabilità. A fronte delle turbolenze estive dovute alle difficoltose negoziazioni politiche per la formazione di un governo di coalizione; del tracollo del mercato interno e dell’escalation di violenza nel sudestanatolico con relativi attacchi terroristici – che nei mesi scorsi han colpito tragicamente il cuore del Paese – la percezione comune in Turchia è che i benefici ottenuti negli ultimi13 anni sotto l’unica guida dell’AKP possono facilmente svanire in assenza di un governo monocolore e che e’ quindi più sicuro e vantaggioso rifugiarsi all’ombra di chi ha garantito stabilità piuttosto che navigare in acque sconosciute.

Nonostante i sollievi e gli entusiasmi, permangono tuttavia molte criticità. Come è dimostrato dallo spaccato elettorale, la società turca oggi si presenta profondamente polarizzata e frammentata su più assi da cui deriva l’urgenza di ricreare un costuttivo clima di riconciliazione basato su una retorica politica inclusiva ed onnicomprensiva. In questo quadro per una solida tenuta è di vitale importanza per l’AKP il ritorno alla sua originaria identità riformista di partito catch-all così come è urgente la necessità di riscrivere la costituzione in termini liberali. A tal prosposito è doveroso ricordare che la trasformazione dell’attuale sistema parlamentare in uno presidenziale rimane una priorità nell’agenda di Erdoğan, sebbene i 317 seggi ottenuti  siano ben al di sotto sia dei 367 necessari ad emendare unilateralmente la carta che dei 330  per indire un referendum. Nel quadro degli aggiustamenti sostanziali al nuovo esecutivo spetta il grande compito di rilanciare il processo di pace con i curdi e ripensare la strategia in Siria. Dopo la proclamazione del cessate il fuoco e l’avvio del ritiro delle truppe armate del PKK dai territori turchi nel 2013 il Sudest Anatolico ha vissuto un periodo di pace  e prosperità. Tuttavia, lo scorso anno a seguito della presa di Kobane da parte dell’ISIS sono emerse profonde spaccature tra il governo e i curdi che, come riflesso della guerra in Siria, si sono trovati a fronteggiare un nemico comune da fronti opposti. Con il principale obiettivo di deporre Assad e di evitare la creazione di un’enclave curda sulla sua lunga linea di confine – che potrebbe generare un effetto spillover interno – la posizione della Turchia in Siria è stata piuttosto ambigua. Viste le grandi spaccature interne e gli interessi divergenti di tutti gli attori coinvolti nel conflitto- da ultima la Russia di Putin – sarebbe opportuno definire con chiarezza la posizione di Ankara nei confronti dell’ISIS – già penetrato oltre confine- e applicare nel medio temine un’efficace strategia.

 

Oggi con Mosca, impegnata attivamente a combattere il Califfato a fianco di Assad, i rapporti sono tesi e questo potrebbe avere una ricaduta sugli interessi della Turchia, che spaziano dall’approvigionamento energetico, con la messa in opera della nuova pipeline Turkish Stream, volta a convogliare gas russo dal Mar Nero verso l’Europa, attraverso un corridoio anatolico. Un’opera che che dovrebbe trasportare a pieno regime 63 miliardi di metri cubi (bcm) – di cui 14 bcm andranno alla Turchia e il resto agli altri Paesi europei; alla costruzione  congiunta della prima centrale nucleare turca Akkuyu – pari a un investimento di 22 miliardi di dollari; oltre ai numerosi accordi economici in atto.

 

Prodotto del caos siriano è anche e soprattuto l’enorme flusso di profughi che rappresenta un’urgenza operativa anche per l’Unione Europea. In quest’ottica la nuova alleanza Berlino-Ankara, basata su un piano quinquennale di supporto ai rifugiati siriani pari a 3 milardi di dollari da stanziare annualmente per la Turchia, potrebbe essere lo spunto per il rilancio del processo negoziale di adesione alla UE, oltre che la carta da giocare per ottenere da Bruxelles un ammorbidimento nella politica dei visti di ingresso per i turchi. Sebbene in una logica do ut des, tale soluzione non è comunque un roseto senza spine: con una spesa annua di 2 miliardi di dollari la Turchia ospita sul proprio territorio più 2 milioni di siriani (di cui soltanto 260.000 sono allocati nei 25 campi di accoglienza), provvedendo alla loro registrazione e assistenza sanitaria, senza però aver ancora elaborato effettive policies di assorbimento e sviluppo sociale.

 

Passando al dato economico, certamente la disgregazione regionale non depone a favore dell’economia, gia’ affetta da problemi strutturali e dal rischio di cadere nella middle-income trap e rallentare ulteriormente i ritmi di crescita. Se è vero che all’indomani del voto le Borse turche sono risalite, un dato allarmante riguarda il tasso di disoccupazione, oggi pari al 10%, ma secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI) destinato ad aumentare fino al 11.6% nel 2016. Malgrado le incertezze l’obiettivo del Presidente Erdoğan rimane quello di entrare tra le dieci economie più sviluppate al mondo entro il 2023, data del centenario della fondazione della Moderna Repubblica di Turchia. Appare chiaro comunque che la tenuta del mercato dipenderà anche anche dalla squadra addetta all’economia e in quest’ottica rincuora il quasi certo ritorno in campo di Ali Babacan –  architetto del ‘boom turco’.

 

Davanti a scenari così compositi l’auspicio è che la Nuova Turchia, partner indispensabile dell’Occidente e interlocuore chiave in Medio Oriente, applichi approcci sostenibili tout court sia per la stabilità interna che per la sua proiezione internazionaleE come si dice da queste parti: Tek Başinda Iktidar Hayirli Olsun – Al governo unico i migliori auguri. 

 

 

Questa analisi di Valeria Giannotta, Assistant Professor in Relazioni Internazionali presso la Business School della Turk Hava Kurumu Universitesi di Ankara, è stata scritta per la Newsletter del CIPMO “Effetto Erdogan”.

NOTE SULL'AUTORE 

Valeria Giannotta

Dopo gli studi in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali a Milano, nel 2009 Valeria Giannotta si trasferisce in Turchia per completare il dottorato sul partito Akp. Docente universitaria a Istanbul, Gaziantep ed Ankara, oggi è un’affermata esperta di dinamiche turche. Per la sua obiettività di analisi nel 2017 è stata insignita dell’onorificenza Cavaliere di Italia dalla Presidenza della Repubblica italiana. 

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