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L’Analisi

La Turchia di Erdogan. Situazione e prospettive

di Carlo Marsili

Data pubblicazione: 6 novembre 2016

L’arresto di tredici parlamentari curdi, tra cui il leader di HDP, Selhattin Demirtas, si inquadra nelle conseguenze del tentato colpo di Stato del 15 luglio scorso. Non è l’unica. È stata preceduta di poche ore dall’arresto di una quindicina di giornalisti del quotidiano di opposizione Cumhuriyet per presunti legami con i gulenisti di FETO e con il PKK. Ora, che HDP non abbia mai rescisso i suoi legami con i terroristi del PKK è un dato di fatto, come lo è tuttavia la sua rappresentanza di sei milioni di elettori che terroristi non sono. Che lo storico giornale kemalista sia legato al terrorismo appare fantascientifico, tant’è vero che a breve il suo direttore Can Dundar, riparato in Germania, verrà ricevuto dal Presidente della Repubblica federale tedesca.

Anche la possibile introduzione della pena di morte con il supporto degli ultranazionalisti di MHP (che non sono riusciti a sostituire l’eterna cariatide che li guida con una donna intelligente come Meral Aksener) va annoverata tra le conseguenze del mancato golpe e serve a coagulare una maggioranza qualificata tale da consentire il referendum per l’introduzione del sistema presidenziale (che per ora esiste solo di fatto). Ma questa comporterebbe a sua volta un’altra conseguenza, e cioè il congelamento della Turchia in seno al Consiglio d’Europa. Per inciso, quel che riguarda il negoziato di adesione è stato purtroppo bloccato da subito nonostante l’impegno comunitario a portarlo avanti, salvo facilitare la sottomissione dei militari e la delaicizzazione dello Stato: questa storica responsabilità dell’Unione Europea va quindi considerata la causa scatenante della situazione attuale. E’ comunque al mancato golpe del 15 luglio scorso che occorre far riferimento.

La stampa turca più conservatrice, che è poi quella che esprime i sentimenti profondi dell’elettorato del Presidente Erdogan, non ha esitato a puntare il dito contro l’Occidente attribuendogli la responsabilità di manovrare a fini eversivi FETO (l’organizzazione di Fethullah Gùlen), ISIS e PKK (con annesso ramo siriano PYD). Vale a dire i tre gruppi terroristici che, ciascuno per fini propri, puntano alla destabilizzazione della Turchia. E lo ripete in tutte le molteplici occasioni in cui la Turchia diventa palcoscenico del terrorismo, soprattutto a partire dalle elezioni parlamentari del 1 novembre 2015. La conta dei morti per attentati di varia matrice si attesta sulle parecchie centinaia, senza contare il continuo stillicidio di militari caduti nel sud est del Paese. Quel che i media sostengono, in termini rozzamente efficaci, viene peraltro ripreso in misura appena più sfumata a livello di Governo (anche per assecondare gli umori della base) e parlamentare – opposizione compresa – ed evidenzia quindi uno dei rari casi di unanimità di pensiero dell’opinione pubblica.

L’idea del nemico che vuole dividere il Paese è stata per decenni – ed è tuttora – parte integrante della psicologia collettiva turca: è quella che può essere definita la “sindrome di Sèvres”. Quando, a conclusione della Prima guerra mondiale, la conferenza di pace si inaugurò a Parigi nel gennaio 1919, gli Alleati videro nell’Impero Ottomano sconfitto un appetibile terreno di caccia. Spogliata di tutti i territori mediorientali, la Turchia venne infatti spartita in zone d’influenza tra Gran Bretagna, Francia, Italia e Grecia in base al trattato di Sèvres dell’agosto 1920. Fu soltanto grazie alla guerra di liberazione nazionale condotta da Atatùrk che le potenze vincitrici furono costrette a ritornare al tavolo negoziale e a riconoscere, con il trattato di Losanna del luglio 1923, gli attuali confini della Repubblica di Turchia. Confini, per inciso, che Erdogan sta rimettendo in discussione secondo gli schemi di una vittoria mutilata, gettando così un’ombra su Ataturk e, più concretamente , per trarre profitto dall’inevitabile sparizione di Siria e Iraq nei termini dell’accordo imperialista Sykes-Picot. Del resto, Mosul e Kirkuk fanno parte della memoria collettiva del Paese, rafforzata ora dall’esigenza di contenimento dei curdi e dall’intento di protezione dei turcomanni e dei sunniti.

Il nazionalismo turco si spiega con questi eventi, che hanno inevitabilmente creato l’angoscia collettiva di un Paese che “gli altri” vogliono diviso. E siccome la memoria storica è parte della coscienza di ogni popolo, il fatto che sia passato un secolo non ha intaccato nei turchi il dubbio – o meglio la certezza – che alcuni Paesi puntino tuttora a smembrare la Turchia per le loro velleità di “grande gioco “in Medio Oriente. Ecco perché il Paese è continuamente pervaso dalle teorie dei complotti, da forme che possono sembrare di paranoia (“l’unico amico di un turco è un altro turco” secondo un detto molto diffuso), dalla malinconia del diverso (huzun) così bene descritta da Orhan Pamuk, che inevitabilmente conducono ad un esasperato nazionalismo come unica risposta possibile alle minacce esterne.

Il tentativo di colpo di Stato del 15 luglio scorso non sfugge a questa regola. Come noto, esso è costato 240 morti e 2200 feriti e ha originato, da quello che è stato definito “il controgolpe di Erdogan”, 20000 prigionieri (per far posto ai quali si è deciso un ampio indulto), una decina di migliaia di arresti in base al decreto sullo stato di emergenza (tra cui 157 generali e 2071 ufficiali nonché scrittori e accademici di fama), migliaia di licenziamenti anche di magistrati (3390), diplomatici, prefetti e docenti universitari e la sospensione di 80000 dipendenti pubblici. Si tratta di una fetta consistente della borghesia turca che viene liquidata. Senza contare il blocco di tutti i passaporti “di servizio”, oltre un milione, tuttora in atto, e il congelamento patrimoniale di numerose aziende ritenute collegate a FETO (circa 4 miliardi di dollari) prosperate negli anni di vacche grasse. Se a ciò si aggiunge la chiusura di una sessantina di testate giornalistiche, di una cinquantina tra canali televisivi ed emittenti radiofoniche, con relativi giornalisti imprigionati, il quadro che ne esce è senza precedenti, se non altro per la rapidità con cui i complottisti sono stati individuati sulla base di liste di proscrizione evidentemente preesistenti e che comunque prima o poi sarebbero state rese gradualmente operative.

Il tentativo di colpo di Stato non è autoindotto come da qualche parte si è affrettatamente sostenuto. Le sue modalità di attuazione sono peraltro state per varie ragioni alquanto maldestre, tra l’altro iniziandolo a fine cena anziché a notte fonda come vuole la tradizione, e difatti entro poche ore i rivoltosi si sono arresi. Il fatto è che settori gulenisti (ma non solo) delle Forze Armate, divenuti un esercito in seno all’esercito, si sono mossi anche in vista della tradizionale riunione del Consiglio Supremo Militare dei primi d’agosto, in occasione della quale si decidono promozioni, pensionamenti e provvedimenti disciplinari in seno ai militari, temendo una più che probabile epurazione, del resto ripetutesi in questi ultimi due anni in seno alla magistratura e alla burocrazia.

Quella sera stessa il Diyanet – la Direzione per gli Affari religiosi a suo tempo creata per “controllare l’islam” ma ormai da tempo strumento per diffonderlo, ha fatto appello dalle 85000 moschee a resistere in ogni modo anche alla luce dell’intervento dello stesso Erdogan su facebook teletrasmesso da CNN-TURK. E tutta la notte si sono susseguiti i richiami dai minareti, che facevano da contrasto ai caccia-bombardieri dei rivoltosi decollati dalla base NATO di Incirlik sotto gli occhi socchiusi degli americani. Una mobilitazione come non si era mai vista in Turchia fin dai tempi dell’Impero Ottomano, quasi che difendere Erdogan fosse un dovere religioso e non solo politico. E che è continuata per quindici giorni, dato che la municipalità di Istanbul ha deciso che tutti i mezzi di trasporto fossero gratuiti per consentire alle periferie di “prendere possesso” di Piazza Taksim, simbolo laico della città dove campeggia un monumento ad Ataturk opera dello scultore italiano Pietro Canonica.

A prevenire il colpo di Stato non sono state quindi le forze socialdemocratiche o anche moderatamente conservatrici, che soltanto più tardi hanno espresso il loro sostegno al Governo partecipando anche alla grande manifestazione pubblica ad Istanbul del 7 agosto, dettata da Erdogan ma con facoltà di parola a due leader dell’opposizione, Kilicdaroglu e Bahceli (il curdo Demirtas non è invece stato invitato). Inoltre, a differenza del 1960, 1971 e 1980, l’operazione è stata decisa da settori relativamente marginali delle Forze Armate ed è loro mancato in particolare l’indispensabile apporto della prima armata di stanza ad Istanbul. Ma c’è un’altra fondamentale differenza tra questo golpe e i precedenti, e cioè che stavolta non sono stati i militari laici a muoversi ma un gruppo che, in caso di successo, avrebbe potuto aprire la strada al trionfale rientro in Turchia – quasi novello Khomeini – di Fethullah Gulen , con tutte le incognite del caso. Tuttavia il resto dei militari non ha ostacolato gli insorti (a meno che lo stesso capo di stato maggiore – come si sussurra – fosse stato avvertito dell’iniziativa e abbia fatto la soffiata ai servizi segreti, anch’essi peraltro mossisi in ritardo) assumendo una posizione apparentemente attendista. Erdogan è stato prelevato dai suoi fedeli dall’albergo di Marmaris dove si trovava in vacanza e condotto con volo militare verso Istanbul (probabilmente il pilota ha dato le coordinate di un aereo civile per ingannare i caccia dei rivoltosi), il cui aeroporto non era stato bloccato. La polizia inoltre, potenziata notevolmente in questi anni a discapito della meno affidabile (per il Governo) gendarmeria, si è allineata al Presidente e non ha esitato ad intervenire in suo sostegno.

Il tentativo di golpe è stato un colpo molto duro al prestigio delle Forze Armate, da sempre altamente considerate dall’opinione pubblica e tradizionali garanti dell’ordine repubblicano e della laicità. Le immagini dei militari di leva che si arrendono ai poliziotti e sotto i loro occhi vengono malmenati da una folla inferocita è stata devastante per un esercito abituato a vincere. Le sue divisioni all’interno, frutto del lungo lavoro erosivo degli ambienti islamico-conservatori, non saranno di facile ricomposizione anche per il rischio di una frattura tra i vertici, legatisi almeno formalmente al Presidente che ha accentrato nelle sue mani promozioni e conferimenti di incarichi , e i quadri intermedi presumibilmente meno accondiscendenti. Il sistema di potere AKP è peraltro riuscito a mettere in piedi in questi anni un complesso militare industriale in cui gli uomini d’affari ad esso contigui e i militari lavorano a stretto contatto. È peraltro evidente che la messa sotto tutela dei militari indebolisce oggettivamente la loro capacità di proteggere le frontiere e combattere il terrorismo, con conseguente imbarazzo della NATO che dispone in Turchia di dodici basi e un arsenale nucleare.

Il Governo ha accusato l’ideologo islamista Fethullah Gulen di esserne il mandante: egli nega ogni addebito invocando un’inchiesta internazionale sul tentativo di golpe e accusa Erdogan di avere approfittato degli eventi per consolidare il proprio autoritarismo. Gulen, autoesiliatosi negli Stati Uniti nel 1999, è alla guida di una potente confraternita religiosa denominata CEMAAT, che ufficialmente predica un islam moderno e moderato di ispirazione sufista, tendenzialmente apolitico, che guarda all’Occidente e alla scienza, campione del dialogo interreligioso. Il suo progetto politico divenne rivale di quello di MILLI GORUS (visione nazionale) di Necmettin Erbakan, l’effimero Primo Ministro di un governo islamista di coalizione con la signora Ciller (giugno 96 – giugno 97), messo in scacco da un ultimatum dei militari con quello che venne definito un colpo di Stato post-moderno. Erbakan, vicino ai Fratelli Musulmani, è stato il mentore politico di Erdogan, finchè questi, cambiando strategia e bisognoso di quadri islamici preparati di cui era privo, fonda AKP e si allea con Fethullah Gulen Vi è quindi stata fin dal 2003 una stretta ed attiva collaborazione tra AKP e CEMAAT volta a delaicizzare l’apparato burocratico, accademico e giudiziario. Soprattutto quest’ultimo, che negli anni precedenti aveva deciso lo scioglimento, a cadenze regolari, dei partiti in odore di islamismo. Sono stati magistrati di Fethullah Gulen a indire processi e comminare condanne, sulla base di prove prefabbricate, contro il mondo accademico laico, esponenti della società civile e l’ambiente militare, decimando gli stati maggiori succedutisi tra il 2007 e il 2012. Ed è fondato il sospetto che dai suoi ranghi provenissero i fanatici che dettero fuoco all’Hotel Madimak di Sivas nel 1993 con dove perirono 37 intellettuali di sinistra e aleviti, così come l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink nel 2007. Perfino l’abbattimento dell’aereo russo nel novembre scorso viene ora loro attribuito.

Entrambi conservatori e religiosi, Erdogan e Gulen hanno condiviso lo stesso progetto di una rilettura islamica della società turca dopo decenni di laicità repubblicana, anche se il secondo tende ad enfatizzare l’aspetto culturale ed il primo quello del nazionalismo basato sull’eredità ottomana. Alleanza che si è ancor più rafforzata dopo che i militari, con il “comunicato di mezzanotte” del 28 aprile 2007, non erano riusciti a bloccare l’elezione parlamentare di Gul alla presidenza della repubblica a scadenza del mandato del laicissimo Sezer, e dopo che la Corte costituzionale non aveva raggiunto per un solo voto il consenso di due terzi necessario per sciogliere AKP pur definendolo un centro di attività islamica. Lo stesso referendum del 2010, con cui AKP ha proposto e ottenuto l’elezione diretta del capo dello stato, prevedeva anche la riforma della Corte Costituzionale aumentandone il numero dei giudici per annacquarla con elementi legati in qualche modo a Fethullah Gulen.

Il tentativo di golpe del 15 luglio scorso non è che l’ultimo atto di una lotta fratricida. Da anni Fethullah Gulen aveva creato uno Stato parallelo che non rispondeva più al Governo, politicamente ed economicamente molto influente, organizzato gerarchicamente con affiliati tra magistrati, funzionari pubblici, diplomatici, poliziotti, militari. La ragnatela gulenista ha cominciato ad operare già negli anni Ottanta, paradossalmente favorita dal Governo militare instauratosi dopo il colpo di Stato del 12 settembre 1980 che, ossessionato dall’idea del pericolo comunista molto più di quello islamico, aveva finito per favorire il risveglio religioso per contrastare la sinistra politica, allora relativamente forte in Turchia. Essa si è espansa però in maniera più pervasiva con il sostegno del Governo Erdogan, entrambi timorosi di una sempre paventata reazione militare. La prima rottura è avvenuta nel 2010 quando, a proposito della vicenda Mavi Marmara (la flottiglia destinata a portare aiuti a Gaza), Erdogan reagisce duramente all’attacco israeliano mentre Gulen accusa gli organizzatori della spedizione. La volontà di pubblicizzare il carattere tollerante dell’islam turco e la diffidenza verso il mondo arabo costituiscono il presupposto della simpatia di Gulen per Israele. Ma già pubblicamente egli aveva criticato la trattativa con il PKK, affidata dal Governo al MIT (servizi segreti) e nel 2012 lo stesso capo dei Servizi ,Hakan Fidan, era stato convocato dal magistrato (gulenista) per chiarimenti. Per rappresaglia Erdogan fa chiudere le “dershane”, scuole preparatorie di stampo gulenista diffuse in tutta la Turchia (e in parecchi altri Paesi). La risposta di Gulen, nel dicembre 2013, è l’accusa di corruzione in seguito alla quale quattro ministri di governo si dimettono, lambendo la famiglia stessa di Erdogan con il figlio Bilal (indagato per inciso anche dalla procura di Bologna dove ha risieduto come studente: di qui il neanche tanto velato attacco di Erdogan all’Italia in una intervista alla CNN). Le procedure vengono comunque bloccate. La contro risposta è la demolizione del quotidiano gulenista ZAMAN, il più diffuso in Turchia e fino a due o tre anni prima distribuito ovunque sotto gli occhi benevoli del Governo ma diventatone poi critico feroce.
La massiccia presenza dei seguaci di Gulen nel sistema giudiziario viene talvolta strumentalizzata per liquidare come complotti le azioni della magistratura. Emblematica la vicenda dei camion del MIT perquisiti dalla gendarmeria presso il confine turco- siriano a fine 2013. Secondo il quotidiano di opposizione Cumhuriyet i camion portavano armi a ISIS in funzione anticurda (e comunque la Signora Clinton, da Segretario di Stato, aveva incoraggiato la Turchia a far transitare le armi per i ribelli siriani quando ancora si illudeva di far cadere Assad), contrariamente alla tesi ufficiale che si trattasse di medicine e materiale di supporto per i Turkmeni. La conseguenza è stata una condanna penale del direttore del giornale. Va comunque rilevato che il Presidente Erdogan ha ora tenuto a scusarsi pubblicamente per l’intreccio tra il suo partito e CEMAAT, ammettendo di essersi lasciato trarre in inganno. Un gesto che gli rende certamente onore anche in considerazione del suo carattere orgoglioso.

Sul piano politico, gli eventi di queste settimane hanno indubbiamente giovato ad Erdogan , che non trova più ostacoli significativi alla sua corsa verso il presidenzialismo, confortato dalla maggioranza parlamentare e dal consenso elettorale di metà del Paese. La sua capacità di fronteggiare efficacemente il colpo di Stato è stata riconosciuta anche dai suoi avversari – tradizionalmente ostili a Fethullah Gulen – e dagli stessi militari estranei al gulenismo, il che significa che la cronica conflittualità tra AKP ed esercito – se non è venuta meno – si è comunque indebolita. E comunque i militari sono ora impegnati dentro e fuori i confini turchi in azioni belliche che non danno spazio ad altri pensieri. Per di più è riuscito a mobilitare sulle piazze una moltitudine religiosa che non si accontenta del conservatorismo fin qui vigente ma chiede una chiara islamizzazione del Paese – su cui egli è tuttavia riluttante – ma intanto ha concesso agli imam (che in Turchia sono dipendenti pubblici) la facoltà di celebrare il matrimonio, pur essendo riconosciuto solo quello civile, e ha consentito alle poliziotte di coprirsi islamicamente la testa. Lo stato di emergenza, proclamato per tre mesi ma già rinnovato per altri tre, consente al Governo mano libera per liberarsi dell’opposizione gulenista, ma apre il fronte anche su altri terreni, come dimostrato nel suo piccolo dal Governatore di Yozgat (Anatolia centrale ) che vi ha fatto riferimento per chiudere i locali pubblici che servivano alcolici nella provincia.

Tuttavia questa posizione di forza ne nasconde una di debolezza che potrebbe trasformarla in una vittoria di Pirro. Erdogan è un uomo solo al comando e almeno per il prossimo futuro è obbligato a presentarsi come l’artefice di una rinnovata unità nazionale. Al contempo la Turchia è un Paese in guerra (troppo spesso viene dimenticato) contro il terrorismo interno – che ha fatto cinquantamila morti in vent’anni – e alle sue frontiere. Quindi anche un capo carismatico come lui ha bisogno in qualche modo dell’Opposizione, che ha finora coinvolto come mai prima d’ora. Tra l’altro, per colmare il vuoto lasciato nell’apparato pubblico dai gulenisti, necessita di recuperare elementi laici finora messi all’angolo. Non si può liquidare tutto ciò come pura strumentalizzazione senza almeno concedere il beneficio d’inventario, anche se l’idillio sta già finendo. Non va dimenticato che Erdogan, mutatis mutandis, vuole entrare nella storia come erede di Ataturk (ormai menzionato esclusivamente come Gazi Mustafa Kemal), uomo nuovo della provvidenza al tempo stesso nazionalista, religioso e liberale (in economia), una sorta di oggetto di culto per gli elettori in cui gli aspetti religiosi si saldano alla volontà popolare. Quindi sarà lui a decidere. Il suo Governo dovrebbe restare in carica senza problemi, e sotto questo aspetto garantire la stabilità politica, a parte taluni avvicendamenti come quello che ha condotto alle recenti dimissioni del Ministro dell’Interno ed altri che potrebbero prospettarsi. Nei fatti è libero, anche per aver ammansito il potere giudiziario (quest’anno a settembre l’inaugurazione dell’anno giudiziario ha simbolicamente avuto luogo per la prima volta nel palazzo presidenziale), di imporre una visione di islam politico in salsa nazionalista. Del resto le nuove classi emergenti dell’Anatolia, figlie del successo economico di questi anni, non hanno gli stessi valori delle élites filooccidentali, ed Erdogan non fa che rifletterle. L’autoritarismo è connaturato alla Turchia, prima quello laicista, ora quello islamico insofferente a ogni forma di “check and balances”. AKP è un partito che ha fatto proprio il discorso sociale della sinistra e l’ha iniettato nei valori delle masse conservatrici usando lo stile , amato da molti turchi, dell’autoritarismo maschilista . Si può far risalire al 1950, con la vittoria elettorale del Partito Democratico, il processo che ha condotto AKP al potere nel novembre 2002. Tant’è vero che i militari se ne accorsero e provvidero a liquidare Menderes. I vari golpe che si sono succeduti hanno solo rinviato il problema: l’elettorato è a maggioranza conservatrice, lo è sempre stato e continuerà ad esserlo, e non abbandonerà AKP a meno di una grave crisi economica.

I tre partiti di opposizione hanno preso le distanze dal golpe: è stata la prima volta che tutti i membri del Parlamento hanno ritrovato un’unità di intenti a difesa della democrazia, e ciò va certamente sottolineato anche per il suo significato simbolico. Ma i problemi di democrazia in Turchia restano anche perché siamo di fronte ad un sistema sui generis in cui Erdogan vince sempre (il che evidentemente non è una colpa) e gli altri sono destinati a perdere. Ciò in virtù di un intangibile blocco conservatore che può contare su metà dell’elettorato e di una legge elettorale (introdotta peraltro dai militari) che premia oltre misura il partito di maggioranza e punisce la frammentata opposizione. Il paradosso è quindi che la metà dei Turchi che si oppone ad Erdogan dovrà democraticamente tenerselo, anche con le sue paternalistiche intromissioni di stampo etico nella vita privata dei cittadini (non si beve, non si fuma, non si va in discoteca, donne a casa a fare almeno tre figli perché una che sceglie di astenersene nega la propria femminilità, osservare il digiuno quando prescritto e i precetti religiosi , frequentazione dei corsi di corano da parte dei ragazzini e così via). Non obbligatorie, si badi, ma comunque suscettibili di imporsi gradualmente per la “pressione del quartiere”.

Che ne sarà allora della metà laica della Turchia, a parte lo stato di depressione cronica in cui è precipitata e così bene descritta dalla scrittrice Elif Safak? Riuscirà il regime a piegarla – come ha piegato Gezi Park – ora che sembra venirsi progressivamente offuscando l’eredità di Ataturk? Domande cui è difficile rispondere. Ma questo apre la stura a considerazioni più ampie, che coinvolgono la possibile evoluzione della democrazia liberale di stampo ottocentesco in democrazia autoritaria grazie a fattori coagulanti di tipo ideologico, e in particolare religioso ,che prendono il sopravvento sulla divisione dei poteri e gli equilibri interni garantiti dalle élites tradizionali. Fenomeno – banalmente definito populismo – che non riguarda solo la Turchia ma investe molti Paesi dall’Europa agli Stati Uniti. E che non è stato estraneo alla stessa Francia quando si è stretta attorno a De Gaulle.

Del resto, le elezioni del 1° novembre 2015, grazie alle quali Erdogan ha potuto riconquistare la maggioranza assoluta dei seggi indebolendo l’estrema destra nazionalista e il partito di riferimento curdo mentre la sinistra laica resta sostanzialmente invariata, sono il nuovo punto di svolta. Forte del bagno di sangue e della conseguente reazione nazionalista seguita alla recrudescenza della lotta armata del PKK subito dopo le elezioni del giugno precedente – che Erdogan considerava una sconfitta e le ha perciò prontamente fatte ripetere – ha potuto stringere a sé non solo il tradizionale elettorato conservatore e religioso dell’Anatolia (koran belt) ma anche nazionalisti, curdi conservatori e cittadini “benpensanti” timorosi dell’instabilità politica. Mancandogli ancora la possibilità di far passare per via parlamentare la sua ambizione di riforma in senso presidenziale per mancanza di numeri (occorre una maggioranza qualificata di 2/3) , non si può affatto escludere che nel prossimo futuro il Presidente indica nuove elezioni parlamentari (sarebbero le terze a distanza ravvicinata) nella speranza di cancellare HDP in Parlamento (vige infatti lo sbarramento al 10%), soprattutto se esso non si deciderà a prendere inequivocabilmente le distanze da PKK. In definitiva, un’eventuale ripresa del dialogo con il PKK, senz’altri intermediari che i Servizi, può essere immaginabile solo quando Erdogan avrà ottenuto il presidenzialismo e sarà più libero di manovrare.

A tale proposito Erdogan potrebbe ricorrere ad un espediente che peraltro egli stesso ha anticipato, e cioè concedere la cittadinanza turca ai 2.5 – 3 milioni di rifugiati siriani. Si tratta di una questione fin qui trascurata dai media occidentali. I rifugiati siriani, che stanno già cominciando a integrarsi con le loro attività commerciali, stanno mutando la faccia dell’Anatolia diluendo la componente curda sia a livello nazionale che nel sudest a vantaggio di quella araba. Parliamo in prospettiva del 5% della popolazione e cioè, sommandoli ai cittadini turchi di origine araba già installati sul territorio, di circa 5 milioni di persone. In alcune province, Gaziantep, Mardin e soprattutto Hatay, l’antica Alessandretta (dove da una maggioranza di aleviti si è già passati ad una sunnita), si è di fronte ad una integrazione forzatamente penosa per i residenti. Senza contare l’“arabizzazione” di Istanbul (360000 siriani), Smirne (83000) ed altre città. E’ facile prevedere che questi nuovi cittadini – per gratitudine e non solo – voteranno in massa per AKP, modificando a suo favore i risultati nelle province curde dell’Anatolia e in quelle laiche della costa egea. Così come, per inciso, è stato fatto per le elezioni amministrative, estendendo le municipalità di quattordici grandi città fino a comprendere l’intera provincia e immettendovi quindi voti conservatori delle campagne che in non pochi casi hanno fatto la differenza per l’elezione dei sindaci. Nel 2019, anno elettorale sia per le presidenziali che parlamentari, questa operazione potrebbe essere conclusa.

D’altra parte l’economia continua nel complesso ad andare bene e la crescita si è significativamente attestata al 4.8 % nel primo quadrimestre di quest’anno. Nel secondo, tuttavia, è scesa al 3.1%. Il che significa che molti Turchi si considerano soddisfatti e conseguentemente poco propensi a cambiare cavallo. Certo, le nubi all’orizzonte sono rappresentate dalla prospettiva di una consistente diminuzione degli investimenti diretti dall’estero e degli introiti del turismo, legati rispettivamente all’incertezza sul futuro e al rischio attentati. Di tali nubi l’agenzia Moody’s ha tenuto conto nell’abbassare sensibilmente a fine settembre il rating della Turchia. Il vice Primo Ministro e coordinatore dei dicasteri economici, Simsek, è certamente un politico capace e stimato. Le sue parole rassicuranti all’indomani del tentativo di golpe hanno contribuito a frenare significativamente la caduta della Borsa di Istanbul e della Lira Turca, la cui debolezza spinge comunque in su l’inflazione. Il tasso di disoccupazione non scende sotto il 10 % e il reddito medio pro-capite non riesce ad attestarsi al di sopra dei 12000 dollari l’anno. Il peso dell’economia sommersa, stando anche alla Tusiad (la Confindustria turca), è colossale. Lo sviluppo di questi anni è stato assicurato anche attraverso l’indebitamento delle famiglie e il loro ricorso al credito con la conseguenza che i prestiti erogati dalle banche sono in gran parte inesigibili; ad esso si accompagna una rilevante speculazione immobiliare con cui gli imprenditori vicini al potere si sono arricchiti. Il peso dello stock del debito estero, per quanto diminuito, resta un problema. La Turchia è il classico esempio di quella che gli economisti chiamanon “middle income trap”, evidenziata dalla difficoltà ad entrare nel club dei Paesi ricchi ( pur essendo la diciassettesima economia dell’OCSE) dopo essere uscita da quello dei poveri.

Il tentato golpe avrà ripercussioni significative anche sulla politica estera. Del resto, con l’estromissione di Davutoglu e il conferimento dell’incarico di Primo Ministro al ben più malleabile Yildirim nel maggio scorso (27 ministri di cui una sola donna, nessun alevita, solo 2 di origine curda e ben 10 diplomati nelle scuole per “imam-hatip” come lo stesso Erdogan) si è già passati dagli ambiziosi disegni fallimentari anti – Assad a un maggiore realismo , di cui la riconciliazione con Israele a sei anni dall’episodio del Mavi Marmara e il disgelo con la Russia (e per converso con l’Iran) sono gli esempi più significativi.

La polemica di Erdogan con gli Stati Uniti a proposito di un presunto coinvolgimento americano nel tentativo di golpe, dell’estradizione di Fethullah Gulen e del sostegno di Washington ai curdi siro-iracheni ( PYD) in funzione anti-ISIS , rischia di deteriorare i rapporti tra i due alleati. Sarà molto difficile per Washington estradare Gulen, anche in considerazione delle sue potenti amicizie americane e della forte simpatia che riscuote presso gli ambienti conservatori e la lobby ebraica. Egli, va ricordato, è stato sempre molto critico della rottura tra Turchia e Israele, ritiene Assad il male minore e quanto il Presidente egiziano Al Sisi detesta i Fratelli Musulmani, fortemente sostenuti da Erdogan. Occorrerebbero prove inconfutabili e la garanzia di un equo processo. La visita ad Ankara del 24 agosto del Vice Presidente americano Biden ha significativamente avuto luogo nello stesso giorno in cui carri armati turchi sono entrati in Siria per consentire ai ribelli di cacciare ISIS dalla roccaforte di Jarablus, da cui si controlla il confine turco: in realtà il timore turco era che fossero i curdi siriani a conquistarla. Biden si è scusato per non essere andato prima ad Ankara e si è impegnato a lavorare insieme per l’estradizione di Gulen, Ha portato in dono la richiesta al PYD di non varcare l’Eufrate e di restarsene a est, il che per la Turchia è essenziale anche in vista dell’eventualità di creare un ampio cuscinetto dove sistemare in futuro almeno una parte dei rifugiati (di qui l’ingresso dei suoi carri armati in terra siriana), ma non va dimenticato che gli Stati Uniti sono in piena campagna elettorale, e la debolezza dell’Amministrazione rinvia necessariamente ogni decisione al prossimo Presidente . Di qui anche la scarsa costruttività, al di là delle rassicurazioni di rito, dei colloqui tra Obama e Erdogan ai margini del G20 in Cina.

La questione curda resta quindi centrale nelle preoccupazioni di Ankara. Per Erdogan PYD, PKK e ISIS sono tutti egualmente terroristi e ritiene essenziale spezzare la contiguità territoriale di un embrione di Stato curdo che funga da attrazione per le province orientali della Turchia. La questione curda, un tempo negata ma poi ammessa dallo stesso Erdogan, che l’aveva anzi affrontata con un certo successo trasformato in tre anni di tregua con il PKK, è tuttavia sostanzialmente rimasta irrisolta fin dagli albori della Repubblica. Essa potrà essere rimessa in agenda dal Governo di Ankara in termini meno conflittuali soltanto al raggiungimento di una stabile intesa sulla Siria. Non va dimenticato che PYD controlla un territorio con 2 milioni di abitanti di cui solo 60% curdi. PYD e PKK hanno peraltro stessi obiettivi, anche se i primi sono necessari agli Stati Uniti in funzione anti-ISIS. Ma neanche Assad vuole uno Stato curdo e neppure l’Iran, che ha una sua minoranza interna curda . Però Ankara intrattiene, con fastidio di Baghdad, ottimi rapporti con i curdi iracheni , del cui petrolio è cliente, e Barzani è di casa in Turchia . Certo è che essa è entrata nel pantano mediorientale fino al collo. Occorrerà vedere quale destino per i curdi presagiscano Mosca e Washington.

Ma il vento della crisi soffia anche sulle relazioni con i Paesi europei, che Erdogan ha accusato di non avere condannato il tentativo di golpe se non tardivamente e a giochi fatti: sotto certi aspetti è innegabile, ma va anche considerato che in Europa la sua portata non è stata compresa in tutta la sua gravità mentre in Turchia la conseguente mobilitazione popolare viene celebrata come una nuova epopea nazionale. Il 15 luglio è ormai simbolicamente entrato nella storia turca. Tutto ciò pone il Presidente in una posizione in qualche modo creditoria che gli consentirà più facilmente di riorganizzare lo Stato secondo la propria visione. L’accordo sui migranti sta funzionando ma Erdogan ha ripetuto che se entro l’anno non verrà abolito il visto di ingresso per i Turchi nell’area Schengen, lo rimetterà in discussione. Su questo punto ha perfettamente ragione e la posizione europea in proposito è irragionevole. Non esiste più da anni un rischio immigrazione dalla Turchia e le procedure Schengen, abolite per gli altri Paesi europei e fatte tranquillamente violare da milioni di migranti economici, vengono imposte solo a turisti ed imprenditori turchi. Dal canto suo, l’Unione Europea dovrebbe aprire i capitoli negoziali 23 e 24 (giustizia, diritti fondamentali, libertà e sicurezza) e forzare i riluttanti greco-ciprioti a risolvere – d’intesa con la più volonterosa controparte turco-cipriota – l’annosa questione di Cipro. E, al tempo stesso, impegnarsi per l’ammodernamento e il completamento dell’Unione Doganale come fortemente richiesto dai dicasteri economici del Governo turco. Le trattative di ingresso nell’Unione Europee si sono praticamente anche se non formalmente arenate (in undici anni sono stati aperti solo 16 capitoli negoziali su 33 mentre uno soltanto è stato chiuso). Il che suona insopportabile per Ankara, quasi una sorta di “TRexit” che lascia la Turchia fuori dall’Unione Europea prima ancora di esserci entrata: per inciso, la recente decisione del Governo turco di dire addio all’ora solare (allineandosi quindi a Mosca e Teheran), per quanto motivata con il risparmio energetico, simbolizza il sempre maggiore distacco dall’Europa. Inevitabilmente in Turchia ormai nessuno crede più seriamente all’adesione e probabilmente l’idea non interessa più. Le sue ambizioni sono diventate globali e per certi aspetti più orientali che occidentali. Ma c’è un impegno da rispettare e non può essere ulteriormente disatteso. Se i Parlamenti europei anziché dedicarsi – come ha fatto da ultimo quello tedesco – al contenzioso storico armeno di cent’anni fa, dessero nuovi impulsi al negoziato insieme ai rispettivi Governi, forse non tutto sarebbe perduto.

Con Israele pace fatta, sia perché Ankara non poteva circondarsi di troppi nemici sia perché ha imparato che per avere una maggiore libertà di manovra in Medio Oriente occorre essere graditi a Gerusalemme.
Pace fatta anche con la Russia, sanzionata dall’incontro Erdogan-Putin del 9 agosto a San Pietroburgo. Non si può parlare di partnership strategica – Ankara sa benissimo che i suoi interessi primari con l’Occidente non glielo consentirebbero – ma economica. La Turchia importa da Mosca il 60% del gas ed è pronta a realizzare il “Turkish Stream” (inviso a Washington). La prima centrale nucleare turca sarà curata dalla Russia. Inoltre la Turchia potrà contare in prospettiva sul rinnovato afflusso di turisti russi, interrottosi in questi ultimi mesi. Ma una troppo stretta aggregazione all’asse sciita Mosca – Teheran – Damasco – Hezbollah comporterebbe anche il divorzio con l‘Arabia Saudita, una strada su cui Ankara non ha intenzione di procedere. L’oscillazione della Turchia sarà dettata dalle regole della convenienza, in particolare da quanto la Russia (e Assad ) – nonché per converso gli Stati Uniti – le verranno incontro sulla questione curda. La destabilizzazione della Turchia obbliga Erdogan al doppio gioco tra Est e Ovest, e quindi non ci sarà più l’alleanza scontata e stabile con l’Occidente dei tempi kemalisti.

In conclusione, qualunque cosa si pensi sulla Turchia in questo momento (e certamente la sua immagine internazionale è ai livelli più bassi) non può prescindere dalle eccezionali difficoltà che sta attraversando. Guerra, terrorismo, fallito colpo di Stato, profonda frattura in seno alla società, pervasività religiosa, gioco delle Grandi Potenze e conseguente esasperazione del nazionalismo: sono tutti elementi fattuali a cui la politica può cercare di far fronte solo con enorme fatica. E va almeno dato atto alla Turchia dello straordinario coraggio nell’affrontarli. Del resto essa ha bisogno dell’Occidente quanto l’Occidente ha bisogno di lei. Qualsiasi considerazione e qualsiasi prospettiva di politica internazionale non possono che partire da questo immutabile presupposto.

NOTE SULL'AUTORE 

Carlo Marsili

Primo Vice Console a Monaco (1973-1975), Primo Segretario a Bangkok (1975-1978), Consigliere politico ad Ankara (1979-1981), Console Generale per la Scozia e Irlanda del Nord a Edimburgo (1984- 1988), vice consigliere diplomatico del primo ministro (1988-1993) e vice capo della missione in Germania (1993-1998). Successivamente Ambasciatore in Indonesia nel 1998, dal 2004 al 2010 è stato Ambasciatore in Turchia.

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