L’Analisi

Il riallineamento della Turchia tra pressione gulenista e svolta presidenziale

di Valeria Giannotta

Data pubblicazione: 22 dicembre 2016

Il 19 dicembre segna un’altra data di sangue per la Turchia. L’omicidio dell’ambasciatore russo ad Ankara Andrey Karlov è il terzo triste episodio di una settimana feroce che ha vissuto due attacchi terroristici a Istanbul e Kayseri e si aggiunge agli ormai innumerevoli atti violenti che solo nell’ultimo anno hanno mietuto circa 400 vittime in tutto il Paese. È però la prima volta nella storia della Turchia moderna che un diplomatico in servizio viene assassinato. E Turchia e Russia si ritrovano nuovamente sotto i riflettori. Dopo la crisi dell’abbattimento del jet russo (24 novembre 2015) e lo stallo delle relazioni bilaterali, la morte di Karlov è percepita da entrambe le parti come un tentativo di sabotare il processo di normalizzazione in atto.

Dopo il disgelo sigillato dalle reciproche visite di protocollo e dalla sigla di diversi accordi, incluso la messa in atto del gasdotto Turkish Stream – decisione ratificata agli inizi di dicembre sia dal Parlamento turco che dalla Duma russa – Mosca ed Ankara stavano registrando una sorta di riallineamento, anche nel complicato scenario regionale. Proprio in Siria e nelle ultime settimane la Turchia si è fatta sentire più volte, proponendosi come mediatore per indurre le forze pro-al Assad a porre fine alle atrocità ad Aleppo. Impegnata in prima linea nell’evacuazione della città e nelle azioni umanitarie di sostegno e ospitalità agli sfollati nelle sue strutture di confine, inclusi i membri del FSA (Free Syrian Army), con la violazione del cessate il fuoco Ankara ha fatto leva sul partner baltico affinché’ si discutesse l’attuazione di una tregua.

L’idea di un meeting trilaterale tra Russia, Iran e Turchia fissata per il 27 dicembre ad Astana, e i cui lavori preparatori si sono svolti a Mosca, proprio il giorno dopo l’uccisione di Karlov nasce per definire una road map per la stabilizzazione di Aleppo e di tutta la Siria, in cui Mosca, Teheran ed Ankara si ergono a Stati garanti. Ovviamente non si sarebbe giunti al tavolo negoziale se gli intenti non fossero comuni. È infatti chiaro da tempo che sia Mosca che Ankara hanno maturato la consapevolezza che è impossibile uscire dalla Siria senza il reciproco e più o meno tacito beneplacito: la Russia ha bisogno della Turchia per vincere la guerra e la Turchia ha bisogno della Russia per guadagnare terreno e arginare la minaccia posta ai suoi confini sia dallo Stato islamico che dai gruppi armati curdi (PYD).

 

Con l’avvio dell’operazione Scudo dell’Eufrate, promossa dalla Turchia lo scorso 24 agosto come operazione preventiva e di contenimento delle minacce oltre il confine turco-siriano, si è appalesato l’assenso della Russia, la cui priorità una volta garantite le basi militari e lo sbocco al mare, è quella di mantenere una posizione dominante nelle dinamiche siriane. D’altra parte Ankara è prima di tutto impegnata a contenere la ricaduta degli effetti spill-over sul proprio territorio, che hanno già messo in moto una pericolosa spirale di violenza.

 

In queste logiche rientra irrimediabilmente il fattore Bashar-al Assad e la questione della transizione politica: da parte turca si registra una minore enfasi sull’urgenza di un’immediata dipartita del Presidente, sostenuto appunto da Russia e Iran, mentre permane lo strenuo sostegno ai ribelli moderati. Ovviamente lo scenario resta non privo di grattacapi per Ankara, se si considera l’escalation di violenza che ha investito il Paese negli ultimi tempi. Tutti i mali oltreconfine operano oggi a intermittenza anche in casa della Turchia, come dimostra il susseguirsi di attentati terroristici.

 

Oltre al comune nemico DAESH, le rivendicazioni separatiste della lotta armata curda a firma PKK e TAK sembrano non fermarsi, e oggi attacchi violenti sono rivolti anche ai maggiori centri urbani del Paese, non solo nel sud est anatolico dove è in corso una vera e propria guerra con le forze armate turche.

In un contesto così fratturato si è aggiunta la nuova minaccia dell’organizzazione FETÖ, già ritenuta responsabile del fallito colpo di Stato del 15 luglio scorso, e oggi tornata sul tavolo degli indiziati per la presunta vicinanza di Mevlüt Mert Altindas, killer dell’ambasciatore Russo, con il movimento gülenista. Posto che le indagini, condotte congiuntamente da un pool di esperti russi e turchi, sono ancora in corso, l’accertata appartenenza ai settori gülenisti potrebbe avere dei riflessi non trascurabili anche oltreoceano. Già nel 2008 la Russia aveva chiuso le scuole güleniste operanti sul proprio territorio perché’ considerate al servizio della CIA. Certamente, con prove alla mano, l’emergere di un nuovo blocco turco-russo ostile a Fetullah Gülen, aumenterebbe le pressioni sugli Stati Uniti per la richiesta di estradizione del predicatore, oggi in esilio in Pensylvania, e quindi i motivi di tensione con gli USA.

 

Insomma, in un contesto siffatto la Turchia mostra tutta la sua multidimensionale vulnerabilità, che sembra trovare riparo in retoriche nazionaliste e in disegni costituzionali di modifica del sistema politico. Quasi per ironia della sorte, sempre il 19 dicembre, mentre Ankara viveva l’ennesimo shock, il Parlamento turco si è riunito per vagliare la proposta di riforma presidenziale, che verosimilmente verrà sottoposta al voto referendario nella prossima primavera. Solo il tempo potrà chiarire se la cura alle fratture interne sia un potere maggiormente accentrato: certamente per ora i chiari di luna non sono dei più promettenti.

NOTE SULL'AUTORE 

Valeria Giannotta

Dopo gli studi in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali a Milano, nel 2009 Valeria Giannotta si trasferisce in Turchia per completare il dottorato sul partito Akp. Docente universitaria a Istanbul, Gaziantep ed Ankara, oggi è un’affermata esperta di dinamiche turche. Per la sua obiettività di analisi nel 2017 è stata insignita dell’onorificenza Cavaliere di Italia dalla Presidenza della Repubblica italiana. 

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