L’Editoriale 

La crisi mediorientale si sta avvitando in uno scontro tra opposte fragilità

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:11 agosto 2006

Quella libanese, innanzi tutto. Il paese è un mosaico, attentamente bilanciato dai vecchi accordi tra le diverse confessioni religiose, ma la componente sciita è andata acquistando un peso crescente, mai registrato ufficialmente, fino ad arrivare al 40-50% del totale. Esso è reduce da decennali esperienze di guerra civile, superate solo grazie alla pax siriana; e ha vissuto più recentemente l’assassinio del premier della ricostruzione, Rafik Hariri, quasi certamente organizzato dai servizi segreti siriani per contrastare la sua crescente richiesta di sovranità e indipendenza dai protettori padroni. La conseguenza è stata il ritiro dell’esercito di Damasco, dopo le grandi proteste della gioventù libanese e su richiesta del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che nella sua risoluzione 1559 del 2004 chiedeva altresì il disarmo delle milizie e il dispiegamento dell’esercito libanese nel sud, ai confini con Israele, al posto degli Hezbollah. Indicazioni, queste ultime, rimaste lettera morta, il che è in larga misura all’origine della odierna crisi.
Dopo il ritiro siriano, il Libano ha conosciuto una contraddittoria fase di democratizzazione, con le elezioni che hanno portato alla creazione del governo di coalizione guidato dal sunnita Fouad Sinora, un moderato che cerca di proseguire l’opera di Hariri e la cui statura internazionale è andata crescendo nel corso di queste settimane, ma che è contornato da personalità come il Presidente Emile Lahoud, cristiano maronita totalmente infeudato ai siriani, o come il Presidente del Parlamento Nabihd Berri, rappresentante sciita portavoce ufficioso degli Hezbollah.
La proposta di modifica alla risoluzione in discussione al Consiglio di Sicurezza, avanzata da Sinora, di dislocare 15.000 soldati dell’esercito nazionale per rilevare le posizioni tenute dagli Hezbollah, e quelle conquistate dagli israeliani, è certamente importante come segnale politico, e come tale è stata recepita dal Premier israeliano Olmert, ma rischia di restare sulla carta, se a quell’esercito non si affianca una forza internazionale sotto l’egida dell’ONU, che lo sostenga sul terreno e lo addestri a fare il suo mestiere. Non si può trascurare, d’altra parte, che la larga maggioranza di quei soldati è sciita, e quindi largamente soggetta all’influenza degli Hezbollah.
Da solo, quell’esercito potrebbe fare ben poco, considerato anche che il budget di cui dispone è nettamente inferiore a quello delle milizie che dovrebbe disarmare.
L’altra proposta di Sinora, quella di un contestuale ritiro degli israeliani, che dovrebbero cedere le aree occupate a così caro prezzo, alla missione disarmata dell’UNIFIL, i rappresentanti dell’ONU accusati di aver lasciato per tanti anni l’Hezbollah accumulare indisturbato armi e fortificazioni, incontra naturalmente il fermo rifiuto di Israele, che condiziona il suo ritiro al dispiegamento della Forza internazionale proposto dal G8.
Il Governo israeliano al contrario ha deciso, se non si arriva entro alcuni giorni al voto di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, di allargare il suo intervento nel territorio libanese, per completare al massimo l’opera di pulizia delle postazioni e soprattutto dei missili delle milizie sciite, che la sola aviazione si è dimostrata incapace di eliminare.
Anche lo Stato ebraico ha scoperto in questo mese una fragilità nuova e una grande solitudine, con le città di tutto il Nord sottoposte al continuo martellamento dei razzi e dei missili, con i suoi soldati sottoposti alle incursioni di una guerriglia decisa, addestrata e soprattutto dotata di armi altamente sofisticate. Tsaal è abituato a vincere contro eserciti regolari, non riesce a trovare un modo e una misura contro questi volontari di Dio che si annidano in mezzo alla popolazione civile e colpiscono da lontano, con ordigni di alta tecnologia, quei giganteschi carri armati che parevano invincibili.
L’unica via per sconfiggerli è ingaggiare un sanguinoso scontro a terra, per trovare i missili e distruggerli, per ricacciarli dalle loro fortificazioni sotterranee.
Ma una nuova consapevolezza pare pervadere il paese: la sicurezza che pareva poter essere assicurata alla popolazione civile, al di là dell’azione isolata di qualche kamikaze palestinese, è finita. I missili possono essere spostati più indietro, ma è sempre possibile trovare e rifornirsi di missili che volano un po’ più lontano. Israele quindi necessità di una nuova concezione di sicurezza, che unisca dialogo e negoziato al contenimento e alla dissuasione.
Alla fragilità dei due principali protagonisti si accompagna quella degli altri.
La Siria è dominata da un regime in cui una minoranza Alawita domina la maggioranza sannita, ed in cui il tentativo di rinnovamento politico e soprattutto economico, tentato da Bashar el Assad, quando è succeduto al padre, si è presto arenato, soffocato da un vecchio establishment solo attento a conservare i suoi privilegi. Un regime che fa del rilancio del suo ruolo in Libano e contro Israele un puntello essenziale per restare in vita, riaffermando contestualmente le sue fondate richieste di restituzione del Golan occupato dal ‘67.
La Autorità Nazionale Palestinese, infine, divisa tra il Presidente Abu Mazen e il Governo Hamas, ed esposta alle incursioni dei leader islamici all’estero, si divide brandelli di potere senza riuscire a dare risposte ad una popolazione oramai esausta.
Su tutto, la fragilità di una Europa politicamente inesistente e che pare delegare alla Francia la sua rappresentanza (l’Italia dopo i giorni ambiziosi della Conferenza di Roma pare oramai ridotta al rango di spettatore che si limita a commentare lo sviluppo degli eventi), e degli Stati Uniti che sono perno dal sostegno alle ragioni israeliane, ma sono paralizzati dal pantano iracheno e non sono in grado di sostenere nuovi impegni diretti nell’area.
L’Iran, in larga parte all’origine della crisi, pare pienamente consapevole del rafforzamento del suo ruolo strategico e politico che essa sta producendo, e deciso a sfruttarlo a fondo quando la discussione sul suo programma nucleare arriverà al pettine, alla fine di agosto.
Al di là degli interventi di emergenza, certamente necessari per giungere a una sospensione delle ostilità, la soluzione della crisi va ricercata tenendo conto di tutte queste fragilità e di tutti questi elementi, non basandosi solo su una valutazione dei meri rapporti di forza, se non si vuole arrivare all’ennesima soluzione precaria, destinata ad andare in pezzi sotto i colpi della realtà, ed anche dei sentimenti

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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