L’Editoriale 

Una nuova opportunità

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 14 settembre 2006

L’accordo interpalestinese raggiunto tra il presidente Abu Mazen e il premier Ismail Haniyeh assume un rilievo sempre maggiore. La Comunità internazionale e l’Europa devono cogliere questa nuova finestra di opportunità, oltre gli schemi astratti della Road Map, araba fenice della diplomazia mediorientale.
A base dell’accordo non vi sarebbe solo il “Documento dei prigionieri”, reso noto nei mesi scorsi, ma anche il Piano arabo del 2002, e le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che postulano una restituzione dei Territori palestinesi occupati nel ’67 in cambio della pace.
Nel “Documento dei prigionieri” vi erano alcuni punti chiave: rivendicazione di uno stato palestinese entro i confini del ’67, e quindi non comprendente anche Israele, con un suo riconoscimento implicito; creazione di un governo di unità nazionale; riforma e democratizzazione dell’Olp, in cui con- fluirebbero anche le organizzazioni islamiche; delega ad Abu Mazen, in quanto presidente dell’Olp (e non in quanto presidente dell’Anp), a trattare con Israele, salvo sottoporre i risultati alla approvazione del Consiglio legislativo palestinese, o se questa venisse meno, di un referendum popolare, che sicuramente lo approverebbe. Inoltre, il Piano arabo del 2002, che viene ugualmente richiamato, contiene un riferimento più diretto ad Israele, che tutti gli stati arabi si erano espressamente impegnati a riconoscere, stabilendo normali relazioni diplomatiche, una volta che questo avesse consentito la creazione di uno stato palestinese, basato sui confini del ’67, con capitale Gerusalemme Est, e assicurato una soluzione «equa e concordata» della questione dei rifugiati.
Il riferimento al Piano arabo comporta perciò per Hamas, se non un riconoscimento preliminare di Israele, come richiesto dalle tre condizioni poste dalla Comunità internazionale per aprire rapporti con la organizzazione islamica, un superamento del rifiuto di principio al riconoscimento, che nel “Documento dei prigionieri” restava solamente implicito.
Così dicasi per le già ricordate risoluzioni del Consiglio di sicurezza.
Una scelta fatta malgrado la tenace resistenza di Meshall, il leader di Hamas all’estero, che vive a Damasco. D’altronde, Israele ha già trattato con la Siria, che non lo riconosce, senza particolari problemi.
Per quanto riguarda le altre due condizioni, rispetto alla rinuncia alla violenza il “Documento dei prigionieri” afferma l’esigenza di rinunciare alle azioni esterne ai territori occupati, e cioè dentro Israele. Per quel che riguarda questi ultimi, il diritto alla resistenza all’occupante è sancito dal diritto internazionale, e per questo aspetto appare sostanzialmente corretto che si parli di tregua anche di lungo periodo (hudna), cui Hamas si dichiara disposta. Più controverso il terzo aspetto, quello del rispetto dei trattati precedentemente sottoscritti, a partire da quelli di Washington del ’93. Su questo si hanno ancora dichiarazioni contraddittorie di Hamas.
Ma è vero che quegli accordi furono sottoscritti dall’Olp, e non dalla Anp che non esisteva ancora, ed è appunto all’Olp, e al suo presidente Abu Mazen, che viene confidato il compito di negoziare con Israele. Peraltro, negli accordi di Washington si afferma che l’Anp non ha competenze in materia di politica estera e di difesa, dato che non è uno stato.
Lo schema è il seguente: un governo di unità nazionale, basato su quel documento, i cui ministri di maggiore rilevanza internazionale non siano nelle mani di Hamas (si parla di figure indipendenti e indiscusse come Salam Fayyad alle finanze e di Hanan Ashrawi agli esteri), presieduto da un leader di Hamas che riconosca tuttavia i principi espressi dall’accordo: potrebbe probabilmente superare l’attuale embargo internazionale, far riaprire la valvola degli aiuti internazionali, ed essere considerato meno impresentabile anche da Israele. Hamas non parteciperebbe alle trattative, delegate a Abu Mazen, che potrebbe tuttavia andare al tavolo negoziale più forte, sulla base di un mandato largo e non a titolo quasi personale, come rinfacciatogli da Israele negli ultimi mesi.
Va detto, infine, che Israele appare oggi privo di una proposta politica rispetto ai palestinesi, che non sia la pura conservazione dello status quo, dato che la proposta di un nuovo ritiro unilaterale dalla Cisgiordania, su cui Olmert si era presentato alle elezioni vincendole, è oramai considerata caduta, dopo la disastrosa esperienza libanese, che ha dimostrato il sostanziale fallimento dell’approccio unilateralista.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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