L’Editoriale 

La democazia bloccata può generare mostri

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 28 maggio 2007

È evidente, come ha ribadito il ministro degli esteri della Ue, Javier Solana, che non si può accettare la ripresa massiccia dei lanci di missili Kassam da Gaza verso Israele, in particolare verso la città di Sderot, dove nei giorni scorsi sono state uccise due persone. È tuttavia evidente che la tregua appena saltata, ma che per circa sei mesi era stata sostanzialmente rispettata da Hamas, non poteva durare mentre Israele continuava a colpire le strutture militari dell’organizzazione in Cisgiordania.
L’altro elemento chiave della situazione è il riesplodere del conflitto tra le diverse fazioni palestinesi.
Un conflitto che investe in particolare tra Fatah e Hamas, che nell’ultimo mese hanno fatto decine di morti a Gaza. Un conflitto che pareva sopito dopo l’accordo della Mecca dello scorso febbraio. Molto probabilmente, alla base vi è, da un lato, il timore di Hamas per la reiterata volontà statunitense e anche israeliana di rafforzare militarmente ed economicamente solo la componente legata ad Abu Mazen, alterando così l’equilibrio alla base di quell’accordo. A ciò si aggiunge una rinnovata aggressività degli elementi più intransigenti di Fatah, legati all’uomo forte di Gaza, Muhammad Yusuf Dahlan, che sentono probabilmente venuto il momento dello show down con i rivali di sempre.
Cui fa da pendant l’aggressività dei gruppi militari islamici, che sempre più spesso sfuggono al controllo del premier Ismail Haniyeh e dello stesso leader del gruppo, Khaled Meshall.
La reazione della leadership israeliana, peraltro attanagliata da una gravissima crisi di credibilità, appare sostanzialmente una risposta a un’opinione sempre più inquieta, di fronte al grandinare dei razzi. La stessa annunciata escalation contro gli esponenti politici di Hamas, denunciati come mandanti del terrore, non pare in grado di risolvere il problema della sicurezza al confine con Gaza, e potrebbe al contrario aprire la strada a una nuova ondata di attacchi suicidi, anche se l’infrastruttura terroristica è stata seriamente intaccata dalle incessanti incursioni della sicurezza israeliana.
La realtà è che la finestra di opportunità, che era sembrata aprirsi dopo l’accordo della Mecca, e il successivo rilancio del Piano arabo, effettuato nel summit di Riyadh, rischia ora di chiudersi di nuovo. Hamas aveva accettato quell’accordo con Fatah nella speranza che ciò permettesse di porre fine all’isolamento internazionale e al conseguente boicottaggio economico.
E in effetti qualche risultato si era ottenuto, con le aperture degli Usa e della Ue al ministro delle finanze Salam Fahyyad. Ma si trattava di aperture del tutto insufficienti, soprattutto per Hamas, che pure riteneva di aver fatto le aperture più consistenti.
Le pallide acrobazie verbali della Ue, con la sua richiesta che il governo palestinese “rifletta” invece che “accolga” le tre condizioni poste dal Quartetto, e cioè il riconoscimento di Israele, la rinuncia alla violenza e l’accettazione dei trattati pregressi, devono essere sembrate ai leader della formazione islamica poco più che aria fritta.
Secondo loro, con gli accordi della Mecca quelledizioni erano state sostanzialmente accolte.
In realtà, vi è una difficoltà delle diplomazie occidentali a cogliere tutta la portata di quegli accordi: essi hanno la struttura di una scatola cinese, sono accordi che contengono o rinviano ad altri accordi: il documento dei prigionieri, il Piano arabo, gli accordi firmati dall’Olp, inclusi quelli di Oslo, di cui ci s’impegna al “rispetto” (non casualmente, lo stesso termine usato da Sharon quando formò il suo governo). La stessa questione del riconoscimento di Israele, in sé, è poco più di una disputa ideologica: normalmente, tra stati in conflitto per il territorio, questo avviene alla fine e non all’inizio del processo negoziale, una volta che siano definiti i confini rispettivi.
Quanto alla rinuncia alla violenza, questa deve essere assoluta riguardo al terrorismo contro i civili, ma non si può negare il diritto alla resistenza contro l’occupazione, per cui quella che va ricercata è una tregua di lunga durata (cui Hamas si dichiara disposto), che apra la strada al negoziato.
In conclusione, l’equilibrio su cui si basa l’accordo della Mecca è un equilibrio fragile: se esso fosse stato recepito con maggiore generosità dalla comunità internazionale, e in particolare dall’Europa, questo avrebbe rafforzato le componenti più realistiche sia di Al Fatah che di Hamas. Di fronte alla sordità o almeno alla insufficiente attenzione internazionale, la parola sta tornando ai falchi palestinesi, e a quelli israeliani.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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