L’Editoriale 

L’ora di Hamas

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 15 giugno 2007

In due giorni Hamas ha preso possesso, senza grande resistenza, della striscia di Gaza. Gli uomini di Abu Mazen, anche se più numerosi, si sono fatti cogliere di sorpresa, e hanno ceduto di fronte alla decisione dei miliziani di Hamas, che hanno sviluppato un attacco ben preordinato e sicuramente studiato nei minimi dettagli, in coincidenza non casuale con la ripresa della strategia della tensione di impronta siriana in Libano.

La formazione islamica si è quindi ripresa, a Gaza, ciò che già considerava suo, un potere che aveva vinto con le lezioni legislative, ma che né Al Fatah, né la Comunità internazionale gli avevano mai compiutamente riconosciuto, continuando a considerarla un occupante abusivo, temporaneo e non pienamente legittimato.

Il tentativo di mediazione raggiunto alla Mecca, sotto gli auspici del Re saudita Abdullah, con la successiva formazione del Governo di Unità Nazionale, metteva fine alla rappresentanza esclusiva del movimento palestinese da parte di Al Fatah, individuando in Hamas l’altro pilastro su cui doveva fondarsi l’Autorità Nazionale Palestinese. Ma esso di fatto non ha mai funzionato: troppe le riserve e le resistenze da ambo le parti, e soprattutto insufficienti il riconoscimento e l’appoggio internazionali, anche da parte dell’Europa.

Hamas controlla oggi la Striscia, e con esso sarà necessario in qualche modo fare i conti e misurarsi, essendo impensabile sigillare quel milione e mezzo di persone come se fossero scarafaggi.

Naturalmente, si pone il problema se non fosse meglio impegnare prima questa formazione sul terreno della trattativa e del negoziato, senza giungere a questi estremi. Superando le pregiudiziali ideologiche del Quartetto, e misurando il Governo Hanyeh sul terreno dei fatti concreti e dei risultati da perseguire.

E’ incerto l’esito dei tentativi di mediazione che anche in queste ore i rappresentanti egiziani stanno sviluppando, e che hanno trovato orecchie attente in Abu Mazen: è improbabile che Hamas rinunci al fatto acquisito, la sua supremazia a Gaza, ritornando al precario equilibrio precedente. Comunque, per Abu Mazen si tratterebbe di un compromesso al ribasso. Anche la richiesta rivoltagli dai suoi di uno scioglimento del Governo di Unità Nazionale e di formazione di un Governo di emergenza, per arrivare entro breve a nuove elezioni, appare difficilmente perseguibile: non si capisce quale autorità concreta potrebbe esercitare un governo del genere sull’area, e soprattutto come potrebbe essere possibile in questo contesto andare a elezioni che non siano limitate alla Cisgiordania. Naturalmente, è possibile che Abu Mazen accetti di essere presidente solo di questa metà di Palestina, dove Al Fatah si appresta ad esercitare una simmetrica operazione di pulizia militare e politica nei confronti di Hamas.

L’alternativa, è la richiesta di intervento rivolto agli egiziani, o alla Lega Araba, e/o alla Comunità internazionale e in particolare all’Europa, sulla falsariga di quello già in atto nel Libano meridionale.

La proposta è stata rilanciata da Solana, ed è stata ripresa, con grande cautela, da D’Alema. Un intervento di questo genere, di fatto, non potrebbe essere messo in campo senza avviare un negoziato che coinvolga non solo Abu Mazen ma anche Hamas, e questo ci riporta al punto di partenza: la formazione islamica otterrebbe sul terreno ciò che la diplomazia gli ha negato prima sul piano politico. Ma si tratta di un passaggio che a questo punto pare ineludibile.

Della partita, naturalmente, dovrebbe essere anche Israele, che tuttavia non può pensare, come chiede Olmert, che la forza di intervento possa limitarsi solo al confine con l’Egitto, senza comprendere il confine con Israele.

Più in generale, pare opportuno parlare più di una forza per ristabilire la fiducia e costruire la pace, tra i palestinesi e tra essi e gli israeliani, piuttosto che di una mera forza di intervento e di sicurezza: la questione infatti non può essere affrontata solo in un’ottica militare.

L’alternativa possibile è quella recentemente proposta dal prof. Jarbawi: che il Presidente dichiari sciolta l’esperienza dell’ANP, prendendo atto della realtà, e riconsegni le chiavi alla potenza occupante, perché si faccia carico, secondo la legislazione internazionale dei problemi della popolazione: scuola, sanità, sicurezza etc.: una prospettiva pesantissima, anche finanziariamente, per Israele. Questo potrebbe portare alla richiesta da parte dei palestinesi di essere integrati come cittadini a pieno titolo: facendo di Israele uno Stato binazionale, a meno che esso non scelga la strada dell’Apartheid, incompatibile con la sua identità storica.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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