L’Editoriale

L’impasse di Obama

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 5 novembre 2009

L’iniziativa mediorientale di Obama pare avvitarsi in una interminabile spoletta tra Netanyahu e Mahmud Abbas (Abu Mazen), effettuata a turno dall’inviato speciale Mitchell e dal segretario di Stato Hillary Clinton. Abu Mazen resta irremovibile nel suo rifiuto di riprendere i negoziati a meno di un congelamento totale degli insediamenti israeliani, il premier israeliano nella sua richiesta di assicurare la loro “crescita naturale”.

Il discorso di Obama al Cairo, dello scorso giugno, pare un ricordo oramai lontano. Allora, la richiesta avanzata agli israeliani fu quella del congelamento completo delle colonie, senza eccezioni, come non mancò di ribadire la Clinton in alcune reiterate dichiarazioni.

Ciò indusse naturalmente Abu Mazen a fare propria la richiesta, non potendo essere da meno dello stesso presidente USA, anche se nella fase immediatamente successiva alla elezione di Netanyahu egli si era detto disposto a riprendere il negoziato al punto in cui si era interrotto con Olmert. E con il precedente Premier israeliano la trattativa era andata avanti per oltre un anno senza che le costruzioni nelle colonie si fermassero, anzi queste erano cresciute del 25%.

La posizione USA, tuttavia, si è venuta via via modificando.

A ciò ha contribuito lo stesso sviluppo delle posizioni israeliane: nel suo discorso di Bar Ilan, il 14 giugno, il premier israeliano ha per la prima volta accettato la posizione “due Stati per due popoli”, accogliendo l’idea di uno Stato palestinese purché smilitarizzato, e purché Gerusalemme restasse capitale unica e indivisa di Israele, e Israele fosse riconosciuto come Stato ebraico dai palestinesi e dal mondo arabo. Condizioni dure e forse inaccettabili, ma un negoziato è fatto per negoziare, e il passo avanti compiuto era innegabile.

Ma ha contribuito anche la pressione interna cui Obama è stato sottoposto, con la lettera promossa dall’AIPAC, la potente lobby ebraica statunitense, e firmata da 73 senatori USA su100, in cui pur appoggiando l’iniziativa di pace del Presidente lo si invitava a tenere presenti gli storici legami di amicizia con lo Stato ebraico, ed i suoi interessi di sicurezza. Così come può avere influito l’avvicinarsi delle stesse elezioni locali.

Fatto sta che nella sua recente missione nell’area la Clinton ha adottato un linguaggio del tutto diverso, e ha dichiarato che, pur se la posizione USA resta a favore del blocco totale, è innegabile che il Governo israeliano abbia compiuto dei passi significativi, adottando restrizioni senza precedenti sugli insediamenti, che avranno profondi effetti nel rallentarne la crescita. Essi non costruiranno nuovi insediamenti, non esproprieranno altra terra, non costruiranno o daranno permessi per nuove costruzioni. Il congelamento totale, ha specificato il Segretario di Stato USA, non può costituire un prerequisito per l’inizio del negoziato.

Di fatto, ciò significa l’accoglimento della mediazione Mitchell, che prevede la accettazione di 3000 nuove abitazioni nei grandi insediamenti vicino a Gerusalemme, e l’esclusione di Gerusalemme Est dal blocco (per non predeterminare l’esito del negoziato finale sulla città), anche se gli israeliani si sarebbero impegnati a non effettuare nuove provocazioni contro quegli abitanti palestinesi.

Ciò ha naturalmente spiazzato Abu Mazen, già fortemente indebolito per avere inizialmente accolto, dopo fortissime pressioni, la richiesta degli USA e di Israele di rinviare la discussione sul Rapporto Goldstone sulla guerra di Gaza, che condanna Israele e Hamas per crimini di guerra.

Ciò aveva esposto il presidente palestinese ai virulenti attacchi di Hamas, che aveva organizzato il lancio di scarpe contro la sua effige affissa sui muri di Gaza, e provocato un crollo della sua popolarità tra la popolazione palestinese, soprattutto quella della Striscia che si era sentita tradita dalla decisione presa, anche se in seguito essa era stata modificata.

In conclusione, è probabile che il presidente Usa avesse inizialmente posto l’asticella troppo in alto, al Cairo, e ciò ha prodotto dei guasti, indebolendo la leadership di Abu Mazen e provocando delusione in tutto il mondo arabo. D’altro canto, egli ha probabilmente mancato anche nel non rivolgersi direttamente all’opinione pubblica israeliana, che si è sentita messa in qualche modo in secondo piano rispetto a quella araba, e ciò ha consentito a Netanyahu di evitare l’isolamento e di occupare, con le posizioni espresse a Bar Ilan, il centro dello spettro politico del suo paese, svuotando il ruolo dell’opposizione di Kadima e della sua leader Tzipi Livni, e assumendo la posizione di un leader forte e saggio, in grado di resistere con successo alle pressioni eccessive esercitate dallo stesso presidente USA, ma anche di esercitare moderazione e disponibilità al negoziato.

L’unico rischio che egli corre, se continua a svuotare così tanto il ruolo di Abu Mazen, è di ritrovarsi di fronte ad uno sgretolamento della Autorità Nazionale Palestinese, e ad avere Hamas come interlocutore principale sul terreno. Vittorie come questa possono essere pericolose.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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