L’Editoriale 

Dopo le bombe sulla Siria, a Gaza una vigilia incerta

di Janiki Cingoli, Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione: 19 aprile 2018

Se il raid USA-Francia-Gran Bretagna sulla Siria, per punire Assad per il rinnovato uso delle armi chimiche (senza esibire alcuna prova dell’accaduto), si è alla fine realizzato, la pioggia di missili sulle basi russe del paese, minacciate da Trump con uno dei suoi tweet, non si è vista.

Si è trattato di un attacco circoscritto e delimitato, con preavviso a Putin, dichiarando che l’obbiettivo non era il rovesciamento di Assad (che per Trump resta un problema dei contendenti locali), ma solo quello di una ennesima lezione una tantum al Rais siriano.

Chi invece ha colpito duro è stato Israele, che per la prima volta ha bombardato direttamente una base iraniana nel paese, provocando le irate reazioni di Teheran

Il Presidente degli Stati Uniti sembra ancora intenzionato a ritirare al più presto le truppe USA dal Paese, malgrado il parere opposto dello stesso Pentagono.

E’ tuttavia errato parlare prematuramente di ritiro degli USA dal Medio Oriente: piuttosto, siamo di fronte a una rinnovata logica bipolare, in cui si riconosce che la Siria appartiene alla sfera di influenza russa, e si sceglie l’altro campo, consolidando l’asse con Israele, i sauditi, gli Emirati e gli altri grandi paesi arabi, non senza contraddizioni interne: a partire dal Qatar (assediato dai Sauditi ma che ospita la più grande base aerea USA della Regione), allo stesso Egitto, che continua a negoziare con Hamas per isolare i ribelli jihadisti presenti nel Sinai, per non parlare della Turchia sunnita.

La Siria torna quindi al suo massacro quotidiano. Resta invece aperta l’altra crisi a Gaza, con le settimanali “Marce del Ritorno” indette da Hamas, destinate a durare fino al 15 maggio, data di fondazione dello Stato d’Israele e dell’inizio della Naqba palestinese.

La reazione dell’esercito israeliano è stata particolarmente dura, con la scelta di utilizzare proiettili veri e non di gomma, provocando molti morti e feriti; e non i normali metodi anti sommossa, adottati solo nell’ultima settimana. E ora bisogna attendere gli sviluppi possibili, il prossimo venerdì.

Va detto tuttavia che proprio l’obbiettivo della marcia proclamato da Hamas, il “ritorno” dei rifugiati del ’48 e del ’67 dentro Israele, significa in sostanza chiedere la fine di Israele come Stato a maggioranza ebraica, e contrasta sia con le più recenti posizioni di Hamas (che proclamava di accettare la proposta dei due Stati lungo i confini del ’67, sia pure come tappa intermedia), sia con lo stesso Piano Arabo di Pace, lanciato dalla Lega Araba nel 2002, che a proposito dei rifugiati parla di “soluzione giusta e concordata”, e quindi concordata anche con Israele.

Non si può però sottovalutare la svolta tattica compiuta da Hamas, con la proclamazione di queste marce “non violente” (anche se in particolare nell’ultima non sono mancate le bottiglie incendiarie, le granate e gli aquiloni in fiamme lanciati oltre il muro di confine per incendiare i campi israeliani).

Ma proclamare come mezzo di lotta manifestazioni di massa non violente e non il ricorso al terrorismo, alla Jihad armata, segna da parte di Hamas un salto di qualità: una scelta che si appropria delle tradizionali parole d’ordine lanciate dall’Autorità Nazionale Palestinese e da Al Fatah, che però non sono stati in grado di metterle in pratica se non sporadicamente.

Hamas cioè tende a proporsi come rappresentante dell’intero popolo palestinese, e in prospettiva a sostituirsi alla stessa OLP come organizzazione cardine della resistenza palestinese, dato che malgrado tutti i patti di pacificazione siglati, resta ferma l’opposizione di Fatah all’ingresso del movimento islamico nell’organizzazione – ombrello palestinese.

Israele ovviamente teme questa svolta, che lo isola internazionalmente e lo pone di fronte a scelte difficili, vanificando il suo tentativo di sostituire ad una prospettiva di conflict resolution quella di conflict management, riportando il conflitto israelo-palestinese al centro dell’attenzione e dei media internazionali.

Ma la teme anche il Presidente Abbas, che in un primo tempo ha dovuto accodarsi all’iniziativa di Hamas, condannando la repressione israeliana, chiamando “martiri” i caduti, richiedendo la convocazione del Consigli di Sicurezza dell’ONU, ove una risoluzione di condanna non è passata solo grazie al veto USA.

Ma il Presidente palestinese è presto passato al contrattacco, rilanciando la pressione su Hamas, rinviando proprio in questi giorni il pagamento degli stipendi ai funzionari pubblici di Gaza (mentre quelli della Cisgiordania sono stati pagati).

La tensione tra i due movimenti è giunta all’apice dopo il fallito attentato al confine di Gaza contro il Premier del Governo palestinese Hamdallah. Abbas chiede che Hamas ceda il controllo della sua forza militare, mentre l’organizzazione islamica rifiuta categoricamente di farlo, e vuole passare all’ANP solo l’amministrazione civile e la responsabilità della vita quotidiana degli abitanti della Striscia, sgravandosi di questa responsabilità oramai divenuta per esso insopportabile, dopo la cessazione dei finanziamenti provenienti dal Qatar, solo parzialmente sostituiti dalla ripresa dei contatti con l’Iran.

Trump, dal canto suo, sta cercando di rilanciare il suo Piano di Pace, trattando direttamente con i Sauditi e gli altri maggiori Stati arabi. Anche se ha liquidato il Segretario di Stato Tillerson, sostituendolo con il falco Pompeo, già capo della CIA, i contatti tra suo genero Kushner e MBS, il Principe ereditario saudita Mahammad Bin Salman, continuano quotidianamente, in accordo con l’inviato speciale americano per il Medio Oriente, Johnathan Greenblatt, facendo planare sul Presidente Abbas la presentazione di un piano messo a punto sopra la sua testa.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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