L’Editoriale

Israele, Egitto, Turchia. La tempesta perfetta

di Janiki Cingoli Presidente del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente

Data pubblicazione:13 settembre 2011

L’espressione tempesta perfetta (il verificarsi simultaneo di una serie di eventi che singolarmente sarebbero molto meno potenti che nella loro combinazione), esprime bene ciò che sta riversandosi su Israele.
L’assalto alla sua Ambasciata, verificatosi sabato scorso al Cairo, costringendo a fuggire di notte e a riparare in patria l’ambasciatore di Gerusalemme con il suo staff, non è un episodio facilmente circoscrivibile, malgrado le misure di sicurezza e giudiziarie già annunciate dagli egiziani. Lo prova lo stesso ritardo delle autorità, entrate in azione solo dopo i decisi interventi del Presidente Obama (cui Netanyahu si era rivolto chiedendo aiuto),  e del capo del Pentagono, Leon Panetta.
L’espulsione dell’ambasciatore israeliano, annunciata dalla Turchia nei giorni scorsi, aveva d’altronde dato nuovo alimento alle manifestazioni egiziane, susseguitesi senza interruzione dopo l’incidente del mese scorso alla frontiera con il Sinai, durante il quale, reagendo ad un grave attacco terroristico, militari israeliani hanno ucciso sei soldati egiziani. Il Ministro della difesa, Barak, ha espresso oralmente “rincrescimento” per l’accaduto, ed è stata nominata una commissione di inchiesta congiunta, ma non sono state presentate scuse scritte e formali, come già era accaduto con la Turchia per l’uccisione dei nove attivisti del battello Navi Marmara, che cercava di raggiungere Gaza.
Lo Stato ebraico assiste così al deterioramento dei rapporti con i due principali alleati che aveva nell’area, in nome della difesa di un “onore nazionale” che impone di non chiedere scusa, per non apparire deboli.
Certo, nella decisione della Turchia ha contato il nuovo ruolo che Erdogan (proprio in questi giorni in visita in Egitto, Tunisia e Libia), vuole giocare nell’area, proponendosi come erede della tradizione ottomana e nuovo punto di riferimento della “primavera araba”. L’inasprimento dei rapporti con Israele può quindi essere funzionale alla ricerca di consenso e di popolarità presso quelle opinioni pubbliche.
Così, in Egitto possono essere stati gruppi di ispirazione salafita a promuovere l’attacco all’Ambasciata, così come a realizzare, in alleanza con gruppi palestinesi e qaedisti, i ripetuti atti terroristici dal Sinai (e nello stesso Sinai, contro il gasdotto che rifornisce Israele).
Ma quello che è certo è che la popolarità di Israele in tutto il Medio Oriente è al suo punto più basso, e dilaga la sfiducia di quelle opinioni pubbliche sulla volontà di Israele di fare la pace e di accettare la nascita di uno Stato palestinese. All’inizio, denominatore comune delle diverse rivoluzioni arabe era stato la mancanza dei tradizionali attacchi contro Israele e gli USA: ma le stesse difficoltà in cui si dibattono quelle rivoluzioni possono aver indotto quei movimenti, o almeno le loro frange più estreme, a focalizzare la loro iniziativa su Israele, anche come strumento per denunciare ritardi e connivenze delle vecchie leadership.
Procede intanto la campagna dell’Autorità Nazionale Palestinese per ottenere il riconoscimento dello Stato palestinese alla prossima Assemblea Generale dell’ONU, e malgrado gli sforzi USA di bloccare il tentativo, si prevede che oltre 140 stati membri voteranno a favore. Subito dopo, si prevede un intensificarsi delle manifestazioni di massa non solo in Palestina, ma in tutti i paesi arabi, con una crescente difficoltà delle leadership più moderate. Sintomatica una dichiarazione di questi giorni di Re Abdallah di Giordania, che in un incontro con esponenti israeliani ha affermato che i palestinesi ora hanno “un futuro più sicuro” di Israele.
L’Iran, infine, approfitta del fatto che l’attenzione della Comunità internazionale è concentrata sulla crisi economica mondiale e sugli sviluppi della situazione nei diversi paesi arabi, per consolidare il suo regime, assorbendo gli ultimi contraccolpi delle contestazioni dell’“onda verde” e proseguendo senza eccessivi disturbi il suo programma nucleare.
In questa situazione, il Premier israeliano Netanyahu ha ragione a dire il quadro regionale pone l’esigenza di nuove garanzie di sicurezza: ma forse farebbe bene a chiedersi se causa non secondaria di instabilità non sia proprio il blocco del processo diplomatico, di cui egli porta molta parte della responsabilità, con il suo ribadito rifiuto di accettare le proposte di mediazione avanzate dal Presidente Obama, e la testarda prosecuzione del processo di colonizzazione dei Territori palestinesi.

NOTE SULL'AUTORE 

Janiki Cingoli

Janiki Cingoli si occupa di questioni internazionali dal 1975. Dal 1982 ha iniziato ad occuparsi del conflitto israelo-palestinese, promuovendo le prime occasioni in Italia di dialogo tra israeliani e palestinesi e nel 1989 ha fondato a Milano il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (CIPMO), che da allora ha diretto fino al 2017 quando ne è stato eletto Presidente.

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